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martedì 22 maggio 2018

Legge 194


Giornaliste del Fatto hanno cercato di abortire, ecco cos’è successo

In occasione dei 40 anni dall'approvazione della legge 194 del 22 maggio 1978 pubblichiamo l'inchiesta uscita sul numero di marzo di Fq Millennium di Martina Castigliani, Silvia Bia, Claudia Campese, Tiziana Colluto, Anna Dazzan, Luisiana Gaita,
Angela Gennaro, Elisa Murgese, Giulia Zanfino.

In coda all’alba, in scantinati squallidi e freddi. Numeri di telefono che squillano a vuoto. Attese di
settimane. Medici che rifiutano certificati o indirizzano a cliniche private. La volontaria dell’associazione “pro vita” che ti parla di «omicidio».
 Mentre i consultori cattolici, in crescita, incassano fior di soldi pubblici, ma mettono in chiaro che fra le loro mura la legge sull’aborto non è in vigore.

Era il 22 maggio 1978 quando in Italia fu promulgata la legge 194 sull’interruzione volontaria di
gravidanza, dopo un’aspra battaglia che spaccò in due il Paese. Quarant’anni dopo, le donne
incontrano ancora molti ostacoli e il loro diritto a scegliere è tutt’altro che garantito. Lo hanno verificato sul campo le giornaliste di Fq Millennium che si sono presentate in ospedali, consultori e farmacie di tutta Italia chiedendo di abortire o di avere la “pillola del giorno dopo” .

Il nodo è quello dell’obiezione di coscienza di medici e infermieri. Secondo l’ultimo rapporto del ministero della Salute, con dati del 2016, i ginecologi obiettori nelle strutture in cui si praticano interruzioni di gravidanza sono oltre il 70%, in lieve aumento sul 2015 (+0,4%). Le punte più alte toccano alle regioni del sud, spesso oltre l’80%, con il record del Molise, dove gli obiettori sono al 96,9%. Nell’Italia centrale si va oltre il 70%, a eccezione della Toscana, così come in Lombardia e Veneto, e oltre l’84% nella Provincia di Bolzano. Se a questo si aggiunge che solo in sei strutture con un reparto di ginecologia e ostetricia su dieci si praticano interruzioni volontarie di gravidanza (84.926 nel 2016, in calo del 3,1% rispetto al 2015), in molte regioni il diritto garantito dalla 194 è di fatto negato. Ci sono strutture dove l’obiezione è totale e altre ridotte a catena di montaggio dell’aborto, con singoli operatori che arrivano a praticarne 400 all’anno.

Nel 2016 il Consiglio d’Europa, su ricorso della Cgil, ha richiamato l’Italia sia per le difficoltà di
applicazione della legge sia per la «discriminazione» nei confronti del personale sanitario non obiettore. L’anno dopo ha fatto lo stesso il comitato dei diritti umani dell’Onu, sottolineando come questi ostacoli portino a un aumento degli aborti clandestini. Con i suoi rischi e le sue tragedie. È la stessa legge 194, del resto, a imporre che «l’espletamento delle procedure» e «l’effettuazione degli interventi richiesti» debbano essere garantiti, ma nella realtà le cose vanno molto diversamente, come leggerete nella pagine che seguono.

Ci sono donne costrette a “emigrare” perché nella provincia di residenza i tempi di attesa sono troppo lunghi, altre non vengono informate adeguatamente sui loro diritti, altre ancora vengono invitate a
rivolgersi ai centri privati. Il tempo si accumula e in molti casi diventa impossibile evitare l’intervento utilizzando la pillola abortiva Ru-486.

E in futuro? «I non obiettori hanno in media 50-60 anni», racconta un medico che abbiamo incontrato a Palermo, mentre gli specializzandi di ginecologia hanno pochissime occasioni di fare pratica. Così «nel giro di dieci anni, la legge 194 potrebbe diventare inapplicabile».

LOMBARDIA, BOOM DEI CONSULTORI RELIGIOSI
Alle 7,30 del mattino alla clinica Mangiagalli di Milano sono già una decina, strette in fila per chiedere di abortire. Non tutte sono accettate. «Oggi ne hanno mandate a casa quattro», conferma una donna mentre aspetta il suo turno. «In base a quante sono in coda, qualche volta si è accettate e altre no – conferma Daniela Fantini, presidente del consultorio Cemp – Devi mettere in conto attese lunghe e imprevedibili». Anch’io vengo respinta, nonostante arrivi pochi minuti dopo l’apertura dell’ambulatorio. Capisco il meccanismo appena un’infermiera mi dedica qualche minuto. Mi dà una lista degli ospedali di Milano, e accanto un numero. «Mangiagalli, max 6», «Buzzi, max 16», «Sacco, max 10». Come alle altre ragazze mandate a casa, non mi resta che provare in un altro ospedale, o sperare di essere la prima il giorno successivo. «Settimana scorsa sono arrivata alle 6.30, per essere sicura di avere il posto, ed ero già la seconda», racconta una ragazza che attende vicino a me.

Mentre sono in fila nell’ospedale pubblico più noto a Milano per la maternità, una voce mi chiede se sono convinta della mia scelta. «Dopo sarà tremendo, ti sentirai come se avessi commesso un delitto,
una cosa gravissima per la tua anima». La signora – senza identificarsi – mi racconta che anche lei ha abortito, e da allora non riesce a smettere di pensare «all’omicidio» che ha commesso. Vengo così
condotta al terzo piano, dove scopro che ha sede il Centro di aiuto alla vita. Mi colpisce quanto sia
confortevole rispetto alla scala H dove aspettano le donne che vogliono interrompere la gravidanza: un locale ben riscaldato con divanetti il primo, un corridoio stretto con sedie non sufficienti e un freddino che obbliga a tenersi la giacca il secondo. «Non importa se tu vai d’accordo con il tuo uomo o no», continua la donna, «se solo i tuoi genitori ti supportassero potresti farcela», aggiunge una volontaria. La scala H, conclude la signora che mi ha approcciato, «la chiamo “il macello”, perché molte lo prendono come metodo anticoncezionale». Così, dopo qualche ora esco dalla clinica, ben istruita sulle mie colpe morali e con un elenco di ospedali dove provare ad andare il giorno dopo.

«Il problema è che in Lombardia non esiste un numero verde o una pagina web istituzionale che dia
informazioni chiare su quale ospedale scegliere, che documenti portare, a che ora presentarti»,
commenta Eleonora Cirant, ricercatrice indipendente che lavora per i Consultori privati laici di Milano. «Un tempo il punto di riferimento erano i consultori, ma oggi con la diffusione dei centri religiosi è tutto diverso». I consultori confessionali lievitano in tutta la regione, con un aumento del 16% dal 2012 al 2017. Con impatto anche sulle tasche dei cittadini, visto che Regione Lombardia rimborsa comunque le visite, ma con somme più alte per incontri psicologici, educativi o di gruppo (normalmente svolti nei centri religiosi) e più bassi per le visite ostetriche o ginecologiche (cuore dei consultori pubblici). Risultato, in posti dove la 194 è come se non esistesse, gli assegni del Pirellone arrivano con più zeri. A Milano ci sono 18 consultori legati alle Ast e 15 accreditati. Di questi ultimi, tre sono laici mentre 12 fanno capo a istituzioni religiose. In sintesi, in uno su tre contraccezione e aborto sono tabù. In uno di questi, il Consultorio familiare Kolbe, la mia volontà di interrompere la gravidanza viene del tutto ignorata. L’operatrice inizia a elencarmi i privilegi economici di cui godrei se decidessi di tenere il bambino. «Bonus famiglia, pacco alimenti, pannolini e vestiti gratis fino al primo anno di vita». Rinnovo la mia richiesta ed ecco che la diligente interlocutrice mi propone di fissare un colloquio con un assistente sociale mentre l’attesa per una visita con una ginecologa sarebbe stata di tre settimane. Alla fine, solo un consiglio: «Se vuole, le do il numero di un altro consultorio. Loro non sono religiosi, forse possono aiutarla».

Ostacoli e complicazioni aumentano per le donne straniere, che spesso incappano nei consultori
religiosi del tutto inconsapevolmente. «Gli ospedali spesso chiudono loro la porta in faccia, così si
procurano l’aborto con farmaci che possono ridurle in fin di vita», racconta Tiziana Bianchini della
Cooperativa lotta contro l’emarginazione. Molte nigeriane vittime di tratta e costrette a prostituirsi in
strada «raccontano di essere state rimandate a casa». Ma accade anche a richiedenti asilo
regolarmente soggiornanti in Italia. A loro non resta che provare i consultori, ma nello slalom tra religiosi e obiettori «i giorni passano e si può arrivare al superamento del termine di tre mesi». Un meccanismo che incrementa gli aborti clandestini. «Non dobbiamo pensare che chi non riesce a interrompere una gravidanza negli ospedali pubblici terrà il bambino. Semplicemente, abortirà in modo illegale, pagando molti soldi o mettendo a rischio la sua vita», chiarisce Bianchini. Per esempio con il Cytotec, un farmaco per prevenire le ulcere gastriche. Compressa dopo compressa, «essendo un anticoagulante provoca emorragie violentissime, tanto che molte donne che lo hanno assunto a scopo abortivo sono finite in ospedale, diverse in pericolo di vita. L’aborto è un diritto – chiude Bianchini – nessuna donna dovrebbe rischiare la vita per farlo».

Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, rispondendo a un’interrogazione del 2017, ha affermato che, secondo le stime, ogni anno dalle 12 alle 15 mila donne italiane e dalle 3 alle 5 mila straniere abortiscono clandestinamente, in cliniche o studi medici fuorilegge.

ROMA, APPUNTAMENTO TRA VENTI GIORNI
A Roma sono le 6 del mattino. All’ingresso del San Camillo non c’è l’indicazione per le interruzioni di gravidanza. Il vialetto che porta alla palazzina di ginecologia è buio e deserto. Sui muri, le scritte dei futuri papà: «Gianrobertino ti stiamo aspettando». A metà della salita esterna, una freccia verso il basso indica un sottoscala nascosto: due rampe, un cortiletto transennato, il rumore degli impianti dell’ospedale. È qui che fanno gli aborti. E qui le donne si mettono in fila dalle 4 del mattino. Ma non c’è nessuno: nella notte ha diluviato e a Roma, quando piove, tutto si ferma. Risalgo verso il bar per un caffè. Quando torno, ci sono quattro donne davanti alla porta chiusa.

Una di loro chatta. Spio: con la ginecologa e con qualcuno chiamato «Amore». Penso che «Amore»
poteva pure stare qui al freddo e tra le pozzanghere. «Aprono la cartella clinica. Poi ti mandano
all’ecografia e dalla psicologa. È rapidissima: solo per essere certa che tu sia consapevole di eventuali dolori dopo», spiega una ragazza. Se c’è posto risolvi in giornata, «altrimenti ti danno appuntamento il prima possibile». Il reparto apre alle 8. Prendono le prime dieci, quindici persone fino alle 8.30. La fila, ora, arriva fino al mondo di sopra: una ventina di donne, uomini accompagnanti tre. Un’infermiera rassegnata apre la porta. Ogni donna riceve un cartellino con numero. «6 arancione!». Certificato, documento. «Figli? Aborti?». «È propensa all’Ru (la pillola abortiva, ndr)?», chiede un’infermiera con dolcezza. «Mai sofferto d’asma? Problemi di coagulazione, epilessia? Cardiocircolatori?». Segna Ru a matita sulla cartella.
«Allora intanto lo scrivo qui che la preferirebbe».

Il San Camillo è l’unico ospedale della Capitale dove ci si presenta direttamente. Negli altri, la trafila
prevede prima il passaggio dal consultorio, anche se già fornite di certificato medico. Molti numeri, di ospedali e consultori, squillano a vuoto. Per altri, scatta il fax. «Venga qui così fa la visita e parla con l’assistente sociale», mi dice finalmente un consultorio di Roma Nord. «Ho già il certificato del mio ginecologo», obietto. «Non importa: lei viene e parla con l’assistente sociale. Poi sarà lui a prenderle un appuntamento». «E quanto ci vuole poi per l’ospedale?». «È in zona? Il primo appuntamento possibile al San Filippo Neri sarà tra una ventina di giorni». «Ma io sono alla sesta settimana, scadono i tempi per il farmacologico». «Vedranno loro se rientra per l’Ru oppure se farà il chirurgico. Altrimenti vada al San Camillo». Analoghe risposte mi vengono date da consultori di altre zone. Nel 2017 al San Camillo sono state effettuate 843 interruzioni di gravidanza farmacologiche, 1323 chirurgiche e 179 aborti terapeutici. Qui arrivano donne da Molise, Sicilia, Basilicata, Campania, Puglia, Calabria, Abruzzo. E dal resto del Lazio: se nella Capitale abortire resta un percorso ad ostacoli, nel resto delle province «la situazione è drammatica», racconta Giovanna Scassellati, che dirige il reparto da vent’anni. A Rieti e Viterbo «fanno 5 interruzioni volontarie a settimana e l’Ru-486 è praticamente inesistente. A Velletri il vescovo dice che lì gli aborti non si fanno». Dal 2012 al 2017 hanno chiuso i servizi di Monterotondo,
Palestrina, Genzano. Per la Regione il servizio è «adeguato», ma non la pensa così Non una di meno,
che proprio il 22 maggio scenderà in piazza a protestare.

Anche i farmacisti obiettano, peccato che per loro la 194 non preveda questa opzione. L’articolo 9 la
limita al «personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie». «Qui EllaOne non la trova», dicono alla farmacia di Fiumicino, mentre una Madonna con bambino ci guarda. Il titolare, Pietro Uroda, presidente Farmacisti cattolici, «non vuole». Ma è legale? «Sono d’accordo con lei», mi viene risposto con un’alzata di spalle.

L’obiezione negli ospedali non è solo di coscienza, ma anche economica, spiega Andrea Filippi,
segretario nazionale della Fp Cgil Medici. Se in un reparto c’è un solo non obiettore, «passerà il suo
tempo a fare aborti e non potrà occuparsi di altro o fare carriera». «E verrà isolato», aggiunge Lisa
Canitano, ginecologa e presidente dell’associazione Vita di Donna. Nella maggior parte degli ospedali di Roma, il primariato di ginecologia è affidato a medici provenienti da strutture del Vaticano o dell’Opus Dei. Per l’aborto oltre i 90 giorni «la situazione è drammatica, a causa dei tanti servizi in mano a strutture religiose come il Gemelli e il Bambino Gesù», spiega Canitano. Strutture dove l’interruzione di gravidanza non è naturalmente contemplata, neppure entro i tre mesi. Quando telefono al Gemelli, ecco la risposta dell’infermiera. «Qui sono tutti obiettori, è inutile che venga. Non ne facciamo proprio». Il primario Pino Noia, presidente dei medici cattolici, definisce gli aborti terapeutici «eugenetici». Richiamarsi alla legge, per lui, è «asettico»: «Se vediamo solo il dato giuridico, 150 anni fa un negro in America non poteva entrare in chiesa», esemplifica a Fq Millennium.Nel frattempo, il laico Policlinico Umberto I ha visto ridursi pesantemente l’attività dello storico «repartino» Ivg, che negli anni Settanta fu occupato per alcuni mesi da un collettivo femminista. Chiuso per un periodo quando l’ultimo medico non obiettore è andato in pensione, ha poi riaperto, ma con attività ridotta: 235 le interruzioni nel 2017, 42 le Ru. «È un policlinico universitario, l’unico a Roma con repartino Ivg: gli altri due non ce l’hanno neppure», dice Serena Fredda di Non una di meno. «Questo è un problema per le prossime generazioni di medici».

EMILIA, “LASCIATA SOLA CON DOLORI LANCINANTI”
Con il 48% di obiettori, l’Emilia Romagna è un’isola virtuosa, tanto che “ospita” donne provenienti dal sud della Lombardia. Ma basta addentrarsi nel reparto ginecologia di un importante ospedale per
imbattersi nella storia di Francesca: lasciata quasi cinque ore in una sala d’attesa, circondata da donne con il pancione, mentre la pillola abortiva faceva il effetto e veniva scossa da dolori lancinanti, racconta a Fq Millennium. Qualche anno fa si è sottoposta all’aborto farmacologico per accelerare i tempi, dopo che in un’altra struttura le avevano fissato l’intervento chirurgico a distanza di oltre venti giorni. «È già una decisione difficile, aspettare è psicologicamente massacrante, perché ogni giorno che passa ti rendi conto di quello che sta succedendo». Così arriva il momento. «Avevo perdite abbondanti, un grande dolore – continua Francesca – e nessuno tra il personale presente in tutto quel tempo mi ha chiesto se avessi bisogno di qualcosa, di un bicchiere d’acqua, un assorbente, un antidolorifico. Sono stata trattata peggio di un animale».

Non sono poche le donne che raccontano di essersi sentite «giudicate, trattate con scarsa umanità e
soprattutto non informate a sufficienza, soprattutto sulla tempistica» spiega Benedetta Ziliani di Non una di meno Piacenza. «C’è chi, aspettando i sette giorni standard dalla visita, ha scoperto che non poteva più prendere la pillola, ma doveva per forza sottoporsi all’intervento». (sb)

CALABRIA, LA CLINICA SOSPESA
È il 7 febbraio quando varco la soglia dell’Annunziata, che troneggia nella parte alta di Cosenza e
imbocco uno dei tanti corridoi che si snodano nel suo ventre. Al reparto di Ginecologia mi indicano i
Servizi sociali. Finalmente arrivo in un corridoio spoglio, dove faccio la fila con una ragazza asiatica. «L’intervento è a Rogliano, a dieci chilometri da qui, e dopo non si può guidare. Io non so come fare a tornare a Cosenza», si lamenta. Arriva il mio turno. Ad accogliermi una signora in camice bianco. Mi avverte che devo decidere in fretta. «Stiamo già prenotando per marzo. Se ti sbrighi e decidi ora, ti prenotiamo in quei giorni. Dopo non lo so». Insisto per capire la ragione di quei tempi d’attesa, alla fine l’assistente sociale cede: «I medici ci sono, ma sono tutti obiettori!».

Fino a poco tempo fa ci si poteva rivolgere alla casa di cura Sacro Cuore, del gruppo imprenditoriale
iGreco, controllato dalla famiglia Greco. L’assistente sociale spiega che la struttura privata è
convenzionata con accredito regionale, «ma da qualche giorno non operano più». Decido di andarci.
Nella lussuosa sala d’attesa la scritta «iGreco» campeggia sulla parete bianca, e dietro i vetri tirati a
lucido alcune signore rispondono al telefono. «Purtroppo siamo fermi», mi dicono. «Per cose di Regione e Asp. C’è la possibilità che si riprenda, così come c’è la possibilità che non si riprenda». Lo stop è arrivato in seguito all’esposto presentato in Procura della parlamentare M5S Dalila Nesci, secondo la quale la clinica non è mai stata accreditata dalla Regione Calabria per praticare interruzioni di gravidanza. L’amministratore unico del gruppo Saverio Greco sventola «un’autorizzazione ministeriale», che però secondo l’esposto non sarebbe sufficiente a legittimare il servizio. «Abbiamo dovuto respingere donne che sono arrivate troppo tardi a causa della difficoltà di trovare strutture», aggiunge.

Morale: in caso di necessità, in meno di un mese a Cosenza e dintorni non si può abortire.
Provo più a Sud, all’ospedale di Lamezia Terme. Dove la dottoressa Lia Ermio mi catapulta in uno
scenario inatteso. Perché ancora oggi, come quarant’anni fa, il personale medico deve sanare
situazioni estreme, come i fai da te che mettono in serio pericolo di vita. Se non si ha la fortuna di
trovare una struttura disponibile, c’è Internet dove si acquistano facilmente pillole che dovrebbero
essere assunte con un medico a fianco. Delle 250 interruzioni di gravidanza l’anno, a Lamezia il 10%
riguarda interventi su aborti fatti in casa.

Secondo il ministero della Salute, su 15 strutture ospedaliere, in Calabria, solo sette praticano
l’interruzione di gravidanza, e all’ospedale di Lamezia su 12 medici solo due non sono obiettori. «È un lavoro con un rischio chirurgico e anestesiologico», chiosa la Ermio.
«Se si può evitare, perché farlo?».

MOLISE, SOLO UN MEDICO NON FA OBIEZIONE
L’obiezione crea paradossi, come in Molise, dove solo un ginecologo pratica l’interruzione di gravidanza e gli altri 31 si astengono. Si chiama Michele Mariano, opera al Cardarelli di Campobasso e dirige il Centro regionale per la procreazione responsabile. Del suo caso hanno parlato anche giornali e tv, un anno fa, ma da allora nulla è cambiato. «Continuo a essere l’unico – racconta a Fq Millennium – e non solo per le donne del Molise, ma anche per quelle che arrivano da regioni vicine, come la Campania, l’Abruzzo, la Puglia». Mariano cerca di non mandare via nessuno perché crede nella 194. «Forse se non è cambiato nulla – ironizza – è anche un po’ colpa mia che continuo a occuparmi di circa 400 interruzioni all’anno da solo». In che modo? «Facendo vacanze brevi, di tre o quattro giorni, al massimo una settimana. E cercando di non far superare alle pazienti i termini di legge». Fosse per lui «l’obiezione di coscienza andrebbe abolita per chi si specializza in ginecologia. Se hai una certa convinzione devi pensarci prima».

In Campania, i dati del ministero sono fermi al 2013: l’obiezione tocca l’81% dei ginecologi, il 65% degli anestesisti, quasi il 73% del personale non medico. E solo qui, oltre che nella provincia autonomia di Bolzano, praticano l’interruzione volontaria di gravidanza meno del 30% delle strutture. Secondo la Regione, al Cardarelli di Napoli gli obiettori sono 10 su 12 ginecologi, al Loreto Mare sono 12 su 15. Al Rummo di Benevento, circa un anno fa l’unico medico non obiettore è andato in pensione e il servizio è stato sospeso per un periodo. L’isola felice è il Moscati di Avellino, dove ci sono sei non obiettori su 14.

Qui è possibile sia fare l’interruzione entro i primi 90 giorni sia oltre, ossia l’aborto terapeutico. «Anche in Campania si incontrano difficoltà – spiega la ginecologa Carla Ciccone – soprattutto per l’interruzione dopo i 90 giorni, per malformazioni del feto». Quest’ultimo è un intervento più complesso, «con la somministrazione della Ru486 e il ricovero per l’intervento di raschiamento». Ad Avellino arrivano anche da altre regioni e per garantire alle pazienti questo diritto Carla Ciccone ha deciso di rimanere nonostante abbia raggiunto ormai i quarant’anni di servizio.

Mentre qualcun altro fa il doppio gioco: il consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli
ricorda casi di «medici radiati dall’Ordine perché obiettori nel pubblico, ma che poi praticavano aborti anche clandestini in particolare a minorenni, a straniere e a prostitute». Solo raramente queste storie vengono alla luce. A Castel Volturno (Caserta), nell’ottobre 2017 è stato arrestato Friday Ewunoragbon, 51enne nigeriano, che per l’interruzione chiedeva 300-350 euro, e fino a 2.500 per quelle inoltrate, anche fino al quinto mese. Tra le clienti di “Doctor Friday”, prostitute nigeriane vittime di tratta provenienti da tutta Italia.

SICILIA, TUTTE A PETRALIA SOTTANA
L’obiezione crea involontarie Mecche dell’aborto. Come Petralia Sottana, nel palermitano, tremila
abitanti e strade spesso impraticabili a mille metri sul livello del mare. Non esattamente un luogo di
passaggio. Eppure, ogni anno, il suo piccolo ospedale è meta di almeno 300 donne che intendono
interrompere una gravidanza, spesso provenienti dalla parte opposta dell’isola o da Palermo, dove la
quota di obiezione è in linea con l’85% regionale (90% a Catania).

A Petralia, i ginecologi sono cinque, compreso il primario, fino all’anno scorso Roberto Ardizzone, unico non obiettore del reparto, oggi in pensione. Al suo posto, l’azienda ha assunto un nuovo collega con un’apposita postilla di non obiezione. «Io ho sempre fatto interruzioni di gravidanza, dal 1979 – racconta – La mia media era di dieci alla settimana». Quasi tutte chirurgiche, considerato che nel paesino sulle Madonie le donne arrivano spesso al limite del tempo, dopo aver girato vari ospedali.

Una situazione oggi tamponata dall’introduzione all’ospedale Cervello di Palermo dell’interruzione
farmacologica, «che permette di snellire le liste di attesa», spiega Francesco Gentile, tra i due non
obiettori sui 23 ginecologi del reparto. La questione, conclude amaro, potrebbe essere presto superata: «I non obiettori hanno in media 50-60 anni e agli specializzandi queste tecniche non vengono proprio insegnate. Nel giro di dieci anni, la legge 194 potrebbe diventare inapplicabile».

L’obiezione, fra l’altro, non sempre ha a che vedere con motivi etici. «Il vero problema sono i soldi. Per molti non è conveniente assumersi il rischio di un’operazione in più se si viene pagati comunque allo stesso modo – riassume Ardizzone – Gli obiettori dovrebbero prestare un servizio alternativo per la collettività, nei consultori o a fare prevenzione nelle scuole».

SALENTO: BANDO RISERVATO AI NON OBIETTORI
La ginecologa non c’è. Ma le infermiere, tutte signore di mezza età, sono premurose:
 «Appuntamento a domani, vediamo di fare in fretta.
Sa com’è, più tempo passa e più diventa difficile per tutti, anche
psicologicamente».
Nel consultorio centrale di Lecce mi presento come una donna alla sesta settimana.

È troppo tardi per l’aborto farmacologico: bisogna sottoporsi a visita ginecologica, poi prenotare in
reparto, poi attendere altri sette giorni, «perché ci potrebbe essere un ripensamento». «Vai a Brindisi», mi suggerisce una ragazza in attesa, 24 anni e una pancia che cresce: «Lì fanno prima, in clinica privata. Io ho risolto così lo scorso anno». Chiamo a Brindisi. E ha ragione lei: in dieci giorni
l’operazione è già fissata, una settimana in meno rispetto a Lecce.

In provincia, avere informazioni è più difficile: il telefono squilla a vuoto di martedì pomeriggio, giornata di apertura, nei consultori di Poggiardo, Maglie e Copertino. A Scorrano, chiamo direttamente in Ginecologia, in ospedale. Risponde un’ostetrica: «Sono obiettrice e qui quella pratica non la facciamo, ma provi a telefonare dopo le 21, perché è di turno un medico che è stato “in mezzo a queste cose” e sa aiutarla».

Nel Salento, la seconda fase è più complicata della prima: l’interruzione della gravidanza è possibile
solo in due ospedali pubblici su sei, sebbene per legge tutti, in day service, dovrebbero garantire il
servizio. Lo scorso anno, i medici non obiettori erano appena tre e la Asl ha dovuto indire un bando riservato solo a loro, prevedendo l’automatico licenziamento di chi dovesse cambiare idea. Oggi sono sei, il 10%. Quattro operano a Lecce, dove il ritmo è pari a circa mille aborti l’anno e i tempi di attesa sono di 15 giorni; gli altri a Gallipoli e Scorrano, dove però mancano ostetriche e anestesisti non obiettori. Così i due sono costretti ad alternarsi il sabato, in day service,
nell’altro unico ospedale disponibile, Casarano.

NEL NORDEST 23 NO PRIMA DI ABORTIRE
Ha dovuto rivolgersi a ben 23 strutture tra Veneto e Friuli Venezia Giulia prima di poter abortire – grazie all’intervento della Cgil – proprio allo scadere dei novanta giorni, avendo scoperto la gravidanza al secondo mese ed essendosi imbattuta in lunghe liste d’attesa. Il caso è del 2016, ma la causa non è cambiata: nell’efficiente Veneto, ci sono picchi di obiezione al 100%,
come ad Adria e nell’Est veronese.

«L’obiezione aveva senso quando è stata fatta la legge – denuncia Mario Puiatti, presidente nazionale
dell’Aied (Associazione italiana per l’educazione demografica) e responsabile delle strutture di Udine e Pordenone – Oggi, invece, chi non è d’accordo semplicemente non deve fare la specializzazione in
ginecologia». Lui è un pioniere, che prima dell’approvazione della 194 praticava già l’intervento
«inviando una lettera di avviso alla Procura della repubblica. Non si poteva fare, eppure nessuno è mai venuto a controllare». Nel Nordest, continua, «il punto di debolezza è il tempo: gli ospedali, per
esempio, vogliono le ecografie anche se non sono obbligatorie. La condizione psicologica delle donne viene completamente sottovalutata».

I diritti, conclude, «non piovono dal cielo, bisogna conquistarseli, se serve anche con la disobbedienza civile e poi lottare per mantenerli».






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COSA TI PORTA IL 2018 ?



venerdì 18 maggio 2018

Staminali sono il Viagra contro Impotenza



 Gli scienziati del Centro danese per la medicina rigenerativa ritengono di aver messo a punto un nuovo trattamento contro la disfunzione erettile a base di queste cellule: un'iniezione alla base del pene sembra in grado di rinvigorire i nervi e i vasi sanguigni dell'organo sessuale, rendendolo anche più grande, risultato che i farmaci non hanno mai raggiunto finora.

La stampa britannica riporta che la ricerca, di cui si saprà di più in occasione del congresso della Società europea per la riproduzione umana e l'embriologia (Eshre) a Barcellona nel mese di luglio, è stata finora indirizzata solo a uomini che hanno avuto la rimozione della ghiandola prostatica a causa del cancro. Una condizione che può causare la degenerazione dei nervi e dei vasi sanguigni nel pene, facendolo restringere e perdere la sua funzione sessuale.

Soren Sheikh, direttore della struttura scandinava, ha detto che i pazienti hanno riconquistato le capacità di erezione per più di un anno, ma saranno necessari studi più ampi per garantire la sicurezza e l'efficacia anche più a lungo termine del nuovo trattamento.

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COSA TI PORTA IL 2018 ?



giovedì 17 maggio 2018

Sesso e Fertilità



Fare tanto sesso non causa il cancro alla prostata, nemmeno se le partner sono diverse da quella 'ufficiale'; il testosterone non fa male al cuore; andare in bicicletta non aumenta le probabilità di 'flop' a letto. Anche sulla salute sessuale e la fertilità dell'uomo circolano fake news, falsi miti o informazioni non confermate che gli esperti della Società italiana di andrologia ci tengono a 'smontare'. Perché "ancora pochi uomini si rivolgono all'andrologo e troppi si affidano invece al web e al passaparola - segnalano dal 42esimo Congresso nazionale Sia di Roma il presidente della società scientifica, Alessandro Palmieri, e quello del meeting, Giuseppe La Pera - con il rischio di imbattersi in notizie non provenienti da fonti scientificamente qualificate".

Un problema non da poco, sottolinea Palmieri, considerando per esempio che i problemi di fertilità riguardano "secondo i dati del ministero della Salute il 20% delle coppie. Una su 5 ha difficoltà a procreare per vie naturali, percentuale raddoppiata rispetto a 20 anni fa e non solo per motivi legati all'età: diversamente da quanto si crede, nella metà dei casi le cause sono da ricercare nell'uomo". La Pera osserva come sesso e fertilità siano "argomenti molto delicati su cui è facile avere informazioni che non corrispondono a verità. A differenza di quanto fanno le donne con il ginecologo, ancora troppi pochi uomini vanno regolarmente dall'uro-andrologo, medico specialista della salute sessuale maschile. Le notizie che hanno in materia sono spesso frutto del 'sentito dire' o lette online su blog e forum, dove il rischio di informazioni scorrette è sempre dietro l'angolo".

Cinque, in particolare, i punti sui quali la Sia vuole fare chiarezza: oltre ai presunti pericoli di una sessualità 'esuberante', delle terapie al testosterone e della passione per il ciclismo, gli esperti affrontano anche gli effetti di vitamine e omega 3 ("possono favorire la fertilità maschile", ma va confermato) e di certe sostanze inquinanti "nemiche dell'equilibrio ormonale".

RAPPORTI SESSUALI - "Avere molti rapporti sembra essere un fattore protettivo per il cancro alla prostata, anche se mancano studi che lo dimostrino in modo definitivo", spiegano gli esperti. "Si è ipotizzato - ricorda Eugenio Ventimiglia, membro della Commissione scientifica Sia - che eiaculare poco frequentemente possa essere associato al tumore prostatico perché favorisce l'accumulo di fluidi che possono contenere sostanze cancerogeniche", e "uno studio pubblicato anni fa su 'Jama' ha evidenziato che 4-7 eiaculazioni al mese riducono del 20-30% il rischio di neoplasia alla prostata". L'impianto della ricerca non permette di confermarlo con certezza, ma l'indicazione c'è. "Altri lavori hanno invece dimostrato che avere tante partner può facilitare le infezioni, le quali a loro volta potrebbero promuovere lo stato infiammatorio della prostata e di conseguenza il tumore". Ma "in merito a questa seconda ipotesi, ci sono stati pochi studi e non solidi - rassicura lo specialista - Nell'uomo, in realtà, nessuno ha mai dimostrato che infiammazioni ripetute promuovano il tumore".

TESTOSTERONE - "Le terapie ormonali a base di testosterone non aumentano il rischio di infarto. E' vero piuttosto il contrario", tranquillizza la Sia: "Chi ha il testosterone basso ha un maggior rischio di infarti e ictus, quindi assumerlo in questi casi aiuta a prevenirli - dice Fabrizio Scroppo, membro del Consiglio direttivo della società scientifica - Al contrario, assumerlo solo per aumentare i muscoli può mettere a rischio la fertilità". Secondo l'esperto, "dati di letteratura consolidati dimostrano ormai con certezza che la terapia del testosterone, se seguita per riequilibrare gli ormoni, ha mediamente un effetto positivo perché riduce i fattori di rischio per le malattie cardiovascolari", agendo ad esempio su indice di massa corporea, obesità viscerale, glicemia e colesterolo.

INQUINAMENTO - "Molte sostanze inquinanti funzionano da interferenti endocrini, cioè modificano l'equilibrio ormonale e la fertilità", confermano gli specialisti. "La concentrazione di spermatozoi nel liquido seminale maschile ha subito un decremento di oltre il 50% nel mondo occidentale dal 1973 al 2011 - fa notare Scroppo - Numerosi studi documentano come l'esposizione cronica agli interferenti endocrini, anche in piccola quantità, sia potenzialmente responsabile, soprattutto in alcune fasce di età, quali il periodo di sviluppo fetale e la pubertà, di alterazioni dell'apparato riproduttivo maschile". Nel mirino ci sono soprattutto il bisfenolo A contenuto nella plastica e i pesticidi.

ANTIOSSIDANTI - "Gli antiossidanti come vitamine e omega 3 possono favorire la fertilità maschile. Vero", ma per la Sia "è un tema da approfondire". Scroppo cita "revisioni di letteratura scientifica" secondo cui "gli antiossidanti possono essere un'opzione terapeutica per l'infertilità maschile non idiopatica, ovvero non dovuta a patologie andrologiche note come i tumori del testicolo. Se somministrati sotto controllo di uno specialista, il loro impiego in maschi poco fertili può migliorare i risultati anche nel caso di utilizzo di tecniche di fertilizzazione in vitro. Sono necessari però ancora studi in grado di verificare la superiorità di un antiossidante su un altro".

BICICLETTA - "Il ciclismo non causa problemi di erezione e infiammazione alla prostata", sentenziano gli esperti. "La buona notizia per gli amanti delle due ruote - conclude Scroppo - arriva da un lavoro pubblicato a marzo sul 'Journal of Urology' e guidato ricercatori del Dipartimento di urologia dell'università della California di San Francisco. E' il più ampio studio comparativo condotto fino a oggi in materia, che ha preso in considerazione quasi 4 mila maschi - 2.774 ciclisti e due gruppi di controllo che non andavano in bici, cioè 539 nuotatori e 789 runner - per vedere se chi praticava ciclismo avesse più problemi nella funzione sessuale o urinari, come precedenti indagini avevano suggerito. La ricerca, data numerosità del campione, confuta i lavori precedenti: non è emersa nessuna differenza tra ciclisti e non ciclisti, neppure tra chi praticava questo sport ad alta intensità, ovvero oltre 3 volte a settimana per almeno 25 miglia al giorno (circa 40 km, ndr), e chi invece lo faceva solo come hobby. Addirittura, gli 'irriducibili' delle due ruote avevano una funzionalità erettile superiore a quella di chi pedalava meno".



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domenica 6 maggio 2018

Cellulari nel mirino dei Tumori al Cervello



L'incidenza dei tumori cerebrali maligni e aggressivi in ​​Inghilterra è più che raddoppiata negli ultimi 10 anni: il tasso di casi di glioblastoma è salito da 2,4 a 5 ogni 100.000 persone tra il 1995 e il 2015, secondo uno studio pubblicato sul 'Journal of Environmental and Public Health'. E se i dati analizzati nella ricerca riflettono solo le statistiche e non fanno luce sul perché queste tendenze potrebbero essersi verificate, i ricercatori indicano alcuni possibili fattori che potrebbero aver avuto un ruolo: fra questi, l'uso del telefono cellulare. Ma anche l'ingestione o l'inalazione di sostanze radioattive e l'inquinamento atmosferico dovuto al traffico.

L'indagine segnala i dati provenienti dall'Ufficio delle statistiche nazionali del Regno Unito: ci sono stati 81.135 casi diagnosticati di glioblastoma nel periodo considerato. Confrontando i casi registrati nel 2015 con quelli del 1995, i ricercatori hanno scoperto che ci sono stati in media 1.548 tumori aggressivi in più ogni anno.

"Lo studio in sé non riguarda i cellulari - ha precisato alla Cnn Alasdair Philips, autore principale dello studio e amministratore di Children with Cancer Uk -, ma queste neoplasie si manifestano principalmente nelle aree del lobo frontale e temporale, vicino all'orecchio e alla fronte", cosa che solleverebbe il sospetto nei confronti dei telefonini. Eppure, ha aggiunto, "dal momento che i tumori cerebrali sono molto rari, il sospetto non dovrebbe destare particolare allarme, perché anche se l'uso del cellulare aumentasse il rischio di tumore al cervello", cosa che la scienza non è ancora riuscita a dimostrare, "si tratterebbe di un rischio molto basso a livello individuale".



Vediamo le prove che collegano i cellulari al cancro.
Veniamo al primo studio. Il gigante delle telecomunicazioni T-Mobile in Germania ha commissionato uno studio indipendente  per esaminare tutte le ricerche pertinenti sui rischi per la salute dei dispositivi wireless. Secondo questa ricerca, molti studi avrebbero trovato una corrispondenza tra campi elettromagnetici ad alta frequenza e sviluppo e proliferazione del cancro.
L’Interphone Studyha rilevato che l’uso regolare di un telefono cellulare da parte degli adulti può aumentare significativamente il rischio di gliomi del 40%, con 1.640 ore o più di utilizzo (si tratta di una mezz’ora al giorno per dieci anni). Lo stesso studio ha rilevato che è molto più probabile che i tumori si verifichino sul lato della testa su cui si appoggia il cellulare con maggiore frequenza.

Una  rassegna di 23 studi epidemiologici condotta da 7 scienziati sul collegamento tra telefoni cellulari e il cancro ha confermato la presenza di un’associazione dannosa.
Un recente studio condotto dal Gruppo di Ricerca Hardell rileva “un modello coerente di aumento del rischio di glioma e neuroma acustico associato con l’uso di telefoni cellulari”. Questi risultati sono coerenti con i loro studi precedenti.
Un recente  studio francese ha  trovato prove di un aumento del rischio di glioma e tumori al lobo temporale, conseguenti a un uso professionale e urbano telefono cellulare.
Un recente studio condotto su 790mila donne di mezza età nel Regno Unito ha evidenziato che le donne che hanno utilizzato i cellulari per dieci o più anni avevano due volte e mezzo in più di probabilità di sviluppare un neuroma acustico. Il rischio aumenta con l’aumento del numero di anni di utilizzo dei telefoni cellulari.
Un documento di ricerca che recensisce 11 studi precedenti, ha trovato un legame tra il prolungato uso del telefono cellulare e lo sviluppo di una ipsilaterale (stesso lato della testa) tumore al cervello.
Un recente lavoro di  Hardell ha esaminato l’uso prolungato di telefoni cellulari e cordless. La conclusione è stata la conferma di un’associazione tra l’uso dei dispositivi e tumori cerebrali maligni. Questi risultati forniscono il supporto per l’ipotesi che i campi elettromagnetici RF-svolgono un ruolo sia nella iniziazione che nella promozione della carcinogenesi.
I cellulari, però, non causerebbero solo gliomi e tumori al cervello. La ghiandola pituitaria è un organo delle dimensioni di un pisello situata al centro della base del cervello che produce gli ormoni che svolgono un ruolo importante in regolano le funzioni vitali del corpo e il benessere generale. Questo  studio avrebbe riscontrato che il rischio di cancro della ghiandola pituitaria è due volte più elevato tra le donne che hanno utilizzato un telefono cellulare per meno di cinque anni rispetto a chi non lo usa.
La tiroide è situata nel collo. Utilizzando un telefono cellulare contro l’orecchio, si espone la tiroide a radiazioni. Un recente  studio israelianoha osservato che l’aumento dell’incidenza del cancro della tiroide in Israele, da più di un decennio, corrisponde all’aumento dell’uso di cellulari. Ci sarebbero prove di mutazioni nelle cellule della tiroide in risposta alle radiazioni elettromagnetiche.
Un altro studio israelianocondotto su 460 casi di tumori della ghiandola parotide, fino ad oggi benigni, ha suggerito un’associazione tra l’uso del telefono cellulare e i tumori della ghiandola parotide, la ghiandola salivare vicino alla guancia, dove molti utenti tengono il loro telefono cellulare.
Uno studio brasilianoha stabilito un legame diretto tra i vari decessi per cancro, come i tumori della prostata, della mammella, del polmone, reni e fegato e l’esposizione alle radiazioni emesse dai ripetitori di cellulari. Oltre l’81% delle persone che muoiono a Belo Horizonte a causa di specifici tipi di cancro vive a meno di 500 metri dalle 300 antenne di telefonia cellulare in città.
Esistono numerosi altri studi che evidenziano non soltanto il collegamento tra uso dei dispositivi cellulari e aumento di incidenza dei tumori, ma anche un abbassamento delle prestazioni cognitive e la morte cellulare.

Certo, il cancro non si forma improvvisamente durante la notte: in quasi tutti i casi, infatti, impiega molti anni per entrare in metastasi.


L’esposizione al tipo di radiazioni emesse dai telefoni cellulari è potenzialmente legata anche a molte altre malattie, tra cui, ad esempio:
danni allo sperma e infertilità maschile
aborti spontanei
perdite vaginali
malattia del sistema vascolare
problemi di sonno
depressione
irritabilità
perdita di memoria
difficoltà a concentrarsi
mal di testa
vertigini e stanchezza
aritmia
livelli di calcio alterati nelle cellule
riduzione notturna della melatonina
soppressione del sistema immunitario
artrite
reumatismi
sintomi cutanei
malattie linfatiche
problemi di udito
Nel 2011, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ammesso che le radiazioni del telefono cellulare sono “potenzialmente cancerogene”.

Eppure esistono delle precauzioni che possono aiutarci a ridurre l’esposizione alle radiazioni. Eccole:

indossare cuffie o auricolari per mantenere il dispositivo il più lontano possibile dalla testa;
spegnere il dispositivo quando non è in uso.
Inoltre, è possibile utilizzare una di queste sostanze per mitigare gli effetti delle radiazioni:

Propoli – Un composto trovato all’interno della propoli delle api, proteggerebbe gli organi interni. Inoltre, avrebbe proprietà radioprotettive.
Come la propoli, la melatonina ha dimostrato di avere potenti proprietà radioprotettive contro radiazioni gamma.
EGCG (polifenolo presente nel tè verde) ha dimostrato di proteggere il fegato contro i danni indotti dalle radiazione della telefonia mobile.
Ginkgo Biloba. Sembra che questa pianta sia in grado di fornire una vasta gamma di benefici per la salute del cervello, in particolare protegge dallo stress ossidativo indotto.




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