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lunedì 3 dicembre 2018

Torna l’eroina, ma il governo se la prende con la cannabis light

Mentre in Italia fa il suo ritorno l’eroina, mietendo vittime   e tornando a diffondersi dopo anni di calo del consumo,   il ministro deputato alle politiche antidroga   ha lanciato la sua battaglia contro la cannabis light.

Mentre in Italia fa il suo ritorno l’eroina, mietendo vittime 
e tornando a diffondersi dopo anni di calo del consumo, 
il ministro deputato alle politiche antidroga
 ha lanciato la sua battaglia contro la cannabis light.

Un paradosso tutto italiano, che potrebbe far sorridere se non stessimo parlando di vite umane, che vede il nostro paese fare dei grandi passi indietro, mentre nel resto del mondo si parla e si annunciano legalizzazioni e liberalizzazioni, sventolando i risultati positivi che il regolamento e la tassazione della vendita di cannabis portano ai governi 
che hanno avuto il coraggio di guardare in faccia alla realtà.

In America il Michigan è il decimo stato a legalizzare la marijuana (siamo a uno su 5, visto che gli Stati Uniti contano 50 paesi), il Canada è stato il primo paese del G7 a legalizzare, il Messico sta preparando una legge dopo la decisione della Corte Suprema, l’Uruguay ci aveva già pensato nel 2013, mentre sono decine i paesi in cui si sta facendo una discussione costruttiva, Spagna in primis.

Da noi invece il ministro Fontana, con la delega per le politiche antidroga, ha partecipato ad una conferenza a San Patrignano in cu è stato presentato uno “studio”, a firma del redivivo Serpelloni, che spiega che la cannabis light va vietata perché, acquistandone 30 grammi, si potrebbe ottenere per estrazione la quantità di principio attivo per fumare una canna.

Mentre ci sono aziende italiane che stanno lavorando sodo e facendo investimenti, mentre tutto il mondo guarda a questo fenomeno positivo per l’agricoltura e l’ambiente e diverse aziende estere iniziano ad investire nel nostro paese, il ministro dell’Interno si è premurato di scrivere una circolare per spaventare gli operatori del settore, invece che concertare con il ministero della Salute delle norme certe che possano favorire la filiera.

E intanto torna l’eroina. Dopo un decennio di calo costante, sono ricominciate a crescere le morti per overdose. Secondo l’ultimo report della Direzione centrale servizi antidroga (Dcsa): “Crescono, invertendo un trend decennale che sembrava consolidato, le morti per overdose. Nel 2017, complice verosimilmente l’impennata nei consumi di eroina, tornano a segnare un sensibile aumento (più 9,7%)”. Centoquarantotto morti nel 2017 e centotrentotto fino ai primi di novembre 2018, secondo i dati raccolti da geoverdose.it, progetto della Società italiana tossicodipendenze. Sono tre anni che questa cifra aumenta. E aumenterà ancora.

A meno che non si inizi a guardare a modelli alternativi; invece che spendere milioni di euro per mandare la polizia con i cani nelle scuole, si potrebbe fare come fece il Portogallo 15 anni fa, martoriato dalle morti per eroina e in piena emergenza sociale: depenalizzare, smetterla di arrestare i semplici consumatori e iniziare e proporre soluzioni, invece che pensare solo a reprimere. Oggi è considerato un modello a livello globale, ma all’inizio la decisione fu accolta con diffidenza. Era il 2001 quando il Portogallo ha, di fatto, depenalizzato l’uso e il possesso di droga per consumo personale (15 grammi per cocaina ed eroina e 20 grammi per cannabis). Non solo non vi è stato un incremento del numero di consumatori di droghe, ma si è assistito ad un drastico calo delle morti per overdose (22 nel 2013 contro i 94 nel 2008), e del numero di infezioni da Hiv legate al problema della tossicodipendenza (40 infezioni nel 2014 contro le 18.500 del 1983).

Il numero dei consumatori di eroina, la droga più utilizzata in Portogallo prima dell’introduzione della depenalizzazione, si è ridotto del 70%, così come a ridursi è stata la percentuale dei detenuti con condanne per reati legati alla droga (il 19% per il 2014 contro il 41% del 2001).

Infine, un fenomeno che ha stupito più di tutti è stato quello relativo alle richieste di aiuto che, in questi ultimi 15 anni, è significativamente aumentato per effetto della mancanza di azioni repressive da parte della polizia. La depenalizzazione ha facilitato non solo la richiesta di assistenza presso i centri specializzati da parte dei consumatori di droghe, 
ma ne ha favorito il loro recupero sanitario e sociale.

Operazioni complesse che vanno pensate e concertate, quando invece è molto più semplice annunciare controlli repressivi e mandare la polizia nelle scuole, pensando così di aver fatto il proprio dovere e ripulendo la propria coscienza di cattivo amministratore.

Intanto i ragazzi andranno avanti ad utilizzare sostanze dai 5 minuti successivi in cui le forze dell’ordine avranno abbandonato la scuola,
 e chi ha una dipendenza continuerà a farsi di eroina, senza che niente cambi.


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domenica 2 dicembre 2018

Viagra, in Gran Bretagna diventa farmaco da banco

Invece di andarselo a cercare su Internet, rischiando come avvenuto recentemente di vedersi arrivare delle pillole contaminate da veleno per topi, i cittadini britannici potranno prendere il Viagra in farmacia senza bisogno della ricetta.

è la prima volta al mondo

Invece di andarselo a cercare su Internet, rischiando come avvenuto recentemente di vedersi arrivare delle pillole contaminate da veleno per topi, i cittadini britannici potranno prendere il Viagra in farmacia senza bisogno della ricetta. La riclassificazione, la prima al mondo di questo genere, è stata decisa dalla Medicines and Healthcare products Regulatory Agency.

    La pillola blu verrà venduta solo in farmacia, precisa il comunicato dell'agenzia, dopo un confronto con il farmacista, che dovrà determinare se il trattamento è appropriato per il paziente e decidere se invece chi richiede il farmaco deve consultarsi prima con il proprio medico. «La medicina - si legge - non sarà venduta a chi ha problemi cardiovascolari gravi e alle persone con un alto rischio cardiaco, a chi ha insufficienza epatica o renale e a chi sta prendendo alcuni farmaci che possono interagire. L'uso in questi gruppi deve continuare ad avere la supervisione di un medico».

    Il farmaco, che nella versione da banco, quella da 50 milligrammi di principio attivo, si chiamerà “Viagra Connect” dovrebbe arrivare nelle farmacie britanniche la prossima primavera. «Far diventare questa medicina più disponibile aiuterà direttamente quegli uomini che altrimenti non si sarebbero rivolti al sistema sanitario - conclude l'agenzia -, tenendoli lontani dai rischi dell'acquisto di farmaci sui siti web che operano illegalmente».

    La giustificazione non convince Alessandro Palmieri, presidente della Società Italiana di Andrologia. «Il metodo italiano è migliore - afferma -, il farmaco va dato su prescrizione e sotto il controllo medico. Ci sono delle controindicazioni che sono limitate ma vanno vagliate, e il farmacista non ha gli strumenti per dire, ad esempio, se il paziente sta assumendo nitrati. 
Inoltre di compresse non si parla più, ci sono situazioni più moderne, dai film sopra e sottolinguali alle onde d'urto, è un concetto datato».

    Il problema dei farmaci per la disfunzione erettile contraffatti riguarda anche l'Italia, con circa l'80% delle confezioni sequestrate rappresentato proprio da Viagra e affini e l'ultima operazione contro i siti illegali della Guardia di Finanza. Il mercato ufficiale è comunque di tutto rispetto, con un giro d'affari per la pillola blu che era di circa 73 milioni di euro prima dell'arrivo dei generici, nel 2013. Da pochi giorni è scaduto anche il brevetto del principale concorrente del Viagra, il Cialis. «L'arrivo dei generici - afferma l'esperto - è un fattore che facilita l'acquisto da parte dei pazienti, porta a un uso più indiscriminato».



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venerdì 16 novembre 2018

Tassare le bevande zuccherate per contrastare l'Obesità


Tassare le bevande zuccherate come la Coca Cola per coprire l'esclusione del regime Irap per le partita Iva fino a 100mila euro. È la proposta M5S-Lega alla manovra, approvata in commissione Finanze e che dovrà essere esaminata dalla commissione


Tassare le bevande zuccherate come la Coca Cola per coprire l'esclusione del regime Irap per le partita Iva fino a 100mila euro. È la proposta M5S-Lega alla manovra, approvata in commissione Finanze e che dovrà essere esaminata dalla commissione Bilancio. L'emendamento, a prima firma dell'esponente 5S Carla Ruocco e sottoscritto da alcuni deputati leghisti, prevede come copertura principale la revisione delle spese fiscali.

Si tratta di un provvedimento spesso invocato per contrastare l'epidemia di obesità: secondo alcuni studi potrebbe funzionare, secondo altri non basta. Esperimenti già condotti in Messico e in California hanno però dato una risposta variabile, ma comunque positiva: nel giro di un paio d'anni il consumo delle bevande tassate si è ridotto mentre è aumentato quello delle bottiglie d'acqua.

Un consumo eccessivo di zuccheri aggiunti può infatti causare diversi problemi di salute. L'obesità per esempio, ma non solo: aumentano i rischi di malattie cardiovascolari, di diabete, di acne, di ansia, irritabilità e sbalzi d'umore. Pare che ostacoli anche l'apprendimento e la memoria.





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sabato 3 novembre 2018

Empatia. Cos'è e Come Ci Connette agli Altri?

Empatia. Cos'è e Come Ci Connette agli Altri?  L'empatia in cosa consiste? Come ci aiuta a migliorare i rapporti con le altre persone in maniera notevole, e ad instaurare delle relazioni quasi perfette?

Empatia. Cos'è e Come Ci Connette agli Altri?
L'empatia in cosa consiste? Come ci aiuta a migliorare i rapporti 
con le altre persone in maniera notevole, e ad instaurare delle relazioni quasi perfette?

Che cos'è l'empatia?

Si parla di empatia quando un soggetto si predispone nello stesso stato d’animo, che sia di gioia o di dolore, di un altro che può essere un conoscente ma anche un perfetto sconosciuto.

Un esempio di empatia potrebbe essere quando si viene a conoscenza di un lutto che colpisce qualcuno provandone dispiacere, anche nel caso in cui magari non si tratta di persone vicine.

Ma si prova empatia anche per le situazioni positive, ovvero si riesce a sentire la gioia che prova un amico o parente quando questo riesce a raggiungere un obiettivo nella sua vita privata.

Analizziamo adesso l’empatia nei suoi vari aspetti, prendendo in considerazione anche lo studio condotto in merito da Edith Stein ed altri, cercando anche di capire se si tratta di una qualità intrinseca di tutti gli essere umani oppure no.

Empatia Significato
Cosa vuol dire empatia?


Se parliamo di empatia e di etimologia, questo vocabolo deriva dal greco eµpa?e?a,
 e si suddivide in due parti:

Che vuol dire dentro;
pathos, ovvero sofferenza oppure sentimento.
Quindi la definizione di empatia si rifà alla capacità di capire come una persona si sente e riuscire a sviluppare le medesime sensazioni che quell'individuo prova. 

Il termine greco nasce per merito dei cantori antichi: questi, infatti, durante le loro esibizioni riuscivano a trasmettere un insieme di sensazioni, sia di gioia che di sofferenza, che provavano nel momento in cui cantavano e narravano le diverse storie che caratterizzavano appunto i loro canti. 

Ma l'empatia si limita solo nel riuscire a capire e riprodurre 
tutte le sensazioni che prova un altro individuo?

In realtà l'empatia comporta anche una sorta di interferenza, ovvero di azione, per fare in modo che dolore e gioia possano essere condivisi: è proprio nella natura degli esseri umani prendersi cura del prossimo e farsi carico dei sentimenti e sensazioni altrui, mettendo da parte le proprio problematiche nel momento in cui quella sensazione viene percepita 
come maggiormente potente rispetto alla propria.

Pertanto occorre sottolineare come l'empatia comporti anche la capacità di aiutare il prossimo a risolvere determinate problematiche e allo stesso tempo fare il possibile affinché tale situazione possa trovare una soluzione.

Essere empatici vuol dire quindi avere l'occasione di prodigarsi, almeno in parte, nei confronti del prossimo soprattutto se questa persona è un amico o parente o comunque potrebbe rientrare nel proprio interesse. Specialmente in questa particolare circostanza il fattore dell'empatia riesce a svilupparsi maggiormente, ovvero questa è maggiormente visibile e riesce a fare in modo che il rapporto tra due persone migliori in modo costante. 

Pertanto, in alcune situazioni, il proprio io viene leggermente messo da parte, facendo in modo che l'aspetto delle emozioni tenda a prevalere leggermente sulla ragione. 

Empatia e Psicologia
L'empatia non è di certo una capacità che viene surclassata dalle altre ma, al contrario, fin dai tempi antichi è stata studiata con particolare attenzione proprio per capire se tutti gli esseri umani sono dotati di questa facoltà, oppure se vi sono casi particolari dove l'empatia è completamente assente. 

Tra i libri sull’empatia troviamo anche l’opera prima di Edith Stein, monaca cristiana, vittima della Shoah, proclamata Santa nonché protettrice d’Europa.

Nel suo libro “Il Problema dell'Empatia”, risalente al 1917 e composto da 140 pagine, la Stein da una prima definizione di questa capacità, descrivendola come insieme di atti mediante i quali si vive la medesima esperienza visiva di una persona. Questo significa che un individuo, emulandone un altro, riesce a sentire le medesime sensazioni e allo stesso tempo è in grado di ricreare quella situazione nella quale si trova un'altra persona. 

Il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, con la sua equipe di neurologi, decise di approfondire lo studio sull'empatia svolgendo alcuni controlli sulla specie animale Macaca nemestrina, trovando quelli che oggi vengono chiamati col termine di neuroni specchio. 

Questi, secondo gli studi, sono i veri responsabili dell'empatia visto che gli stessi si trovano nella zona della corteccia premotoria, ovvero quella parte del cervello 
che si occupa di gestire i movimenti del proprio corpo.

Ciò rafforza il concetto di Edith Stein sull’empatia e dei successivi studiosi, visto che in molti sostennero non solo l’aspetto emotivo, ma anche la capacità di emulare un altro individuo coi gesti. 

I neuroni specchio e l'empatia sono quindi fortemente connessi dato che imitare una persona consente di farci un’idea di come questa si sente in determinate circostanze.

L'empatia ed intelligenza emotiva sono un ulteriore binomio visto che, i diversi studi neurologi e psicologici, hanno messo in risalto il fatto che chi sviluppa una forte intelligenza emotiva riesce a essere maggiormente empatico e in grado di sentire, con maggior attenzione, il dolore, gioia e gli altri stati d'animo che vengono provati da chiunque altro.

Ma gli studi su questa capacità sono proseguiti nei corsi degli anni e sono diversi i libri sull'empatia che cercano di offrire una spiegazione ben precisa su questa capacità.

Sempre il neurologo Rizzolatti ha scritto un libro interessante dal titolo “In Te Mi Specchio”, il quale analizza con maggior precisione il concetto di emulazione attiva e soprattutto di imitazione degli stati d'animo, dando una spiegazione attenta sui diversi tipi di meccanismi che fanno in modo che l'empatia possa essere maggiormente sviluppata.

In svariati altri libri sull'empatia, come “I Processi di condivisione delle emozioni” oppure “Che cos'è l'empatia di Carocci”, viene spiegato anche che l'ossitocina permette di avere un livello di empatia differente: questa stimola l'encefalo delle persone permettendo alle stesse di avere una capacità empatica migliore rispetto a quella che potrebbe avere un'altra persona.

E trattandosi di una sostanza che generalmente è maggiormente presente nelle donne, dato che questo ormone stimola le pareti dell'utero, è semplice immaginare le stesse riescano 
a essere più empatiche rispetto all'uomo. 

Mancanza di Empatia
Giunto a questo punto, la domanda che quasi sicuramente ti starai ponendo è: siamo tutti empatici? 

La risposta è ovviamente negativa, dato che esistono 
anche persone che tendono a non avere questa capacità.

In questo caso si parla di dispatia e occorre sottolineare come, in tale circostanza, una persona adotta un comportamento completamente differente rispetto quella empatica.

Se nel secondo caso si parla di persone che hanno un modo di fare quotato all'aiuto delle altre persone, chi rientra nella categoria delle persone dispatiche:

non riesce a sentire alcun sentimento immedesimandosi nelle altre persone;
non imita nessuno;
cerca di avere un atteggiamento distaccato nei confronti degli altri.

Di conseguenza occorre sottolineare come in questo caso i dispatici hanno un atteggiamento che riesce a prevenire anche quei cambiamenti d'umore 
che potrebbero caratterizzare una persona empatica. 

Pertanto occorre sottolineare come si tratti di due mondi completamente diversi i quali, molto spesso, tendono a scontrarsi visto che gli empatici non riescono a comprendere appieno il comportamento di chi, invece, è abbastanza distaccato e sotto un certo punto di vista abbastanza freddo, e viceversa.

L'Empatia e il Rapporto Con le Altre Persone
L'empatia serve nel rapporto con le altre persone?

Si, anche se non è fondamentale.

Questo per il semplice fatto che, in quanto empatici, si riesce a stare maggiormente vicini a un'altra persona che, sentendosi capita, riesce ovviamente a sentirsi compresa e soprattutto tende a sviluppare un sentimento d'affetto nei confronti di chi si dimostra appunto empatico nei suoi confronti. 

Pertanto l'empatia rappresenta quell'elemento aggiuntivo in grado di offrire la possibilità di instaurare delle relazioni che possono essere definite come migliori sotto ogni punto di vista, garantendo alle stesse di trovare un partner, o semplicemente un amico, 
col quale riuscire a trascorrere dei momenti piacevoli e non.



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mercoledì 24 ottobre 2018

farina 00 e' dannosa

farina 00

La farina 00 e' dannosa per la salute: ecco perche'


La farina 00 è nociva. Dietro il suo aspetto apparentemente innocuo, il suo colore candido e la sua consistenza così vaporosa e leggera, si nasconde un vero e proprio pericolo per la salute umana.
Questa farina – diffusissima nei supermercati e comunemente usata negli impieghi casalinghi - si ottiene attraverso la macinazione industriale del chicco di grano, che comporta l'eliminazione del germe (ovvero il cuore nutritivo del chicco, che contiene aminoacidi, acidi grassi, sali minerali, vitamine del gruppo B e vitamine E) e della crusca (la parte più esterna, particolarmente ricca di fibre). Tutto questo porta a un impoverimento della materia prima: da questa macinazione si ottiene infatti una farina raffinata, che si mantiene a lungo, ma risulta terribilmente depauperata e ricchissima di zuccheri.
Abbiamo chiesto al professor Franco Berrino, ex direttore del Dipartimento di medicina predittiva e per la prevenzione dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e consulente della Direzione scientifica, quali sono gli effetti negativi dell'uso abituale di questo tipo di farina.
"La farina 00 - come tutti i prodotti raffinati – provoca un aumento della glicemia e il conseguente incremento dell'insulina, fenomeno che nel tempo porta ad un maggior accumulo di grassi depositati".
Tutto questo si traduce quindi con un indebolimento dell'organismo, sempre più soggetto a malattie di ogni tipo, tumori inclusi.
Quali farine bisogna scegliere allora?
"L'ideale – spiega Berrino – è acquistare grano biologico dai nostri contadini (possibilmente il grano duro, che ha un contenuto più basso di zuccheri) e macinarselo da soli. In casa".
Vi sembra impossibile? Niente affatto!
Sui siti di e-commerce esistono ormai tantissimi rivenditori di piccoli mulini a pietra casalinghi a costi relativamente contenuti (si va dai 300 ai 500 euro) che permettono di macinare il grano in casa e auto produrre farine sane e di qualità.

mulino casalingo

In questo modo il chicco verrà semplicemente polverizzato senza essere privato del germe e della crusca, elementi che forniscono sostanze preziosissime per il nostro organismo.
La differenza tra una farina macinata a pietra e la 00 industriale è palpabile: la prima è granulosa e color sabbia, la seconda ha l'aspetto del gesso.
E per i fissati della manitoba?
"Essendo ricca di glutine – ha continuato il professor Berrino – la manitoba permette di ottenere pani e dolci più soffici e vaporosi, ma poiché anche questa è una farina raffinata comporta gli stessi rischi della 00 e va usata con moderazione".
Insomma, il suggerimento è consumare queste farine il meno possibile. Proprio come tutti i prodotti raffinati, zucchero bianco incluso!
Attenzione poi al pane integrale, o pseudo tale!
La maggior parte dei pani denominati integrali (specie quelli acquistati al supermercato) sono composti da farina 0, cui viene aggiunto un derivato della crusca, anche questa privata delle sue sostanze più preziose e finemente rimacinata. In breve, uno scarto raffinato di lavorazione industriale, che diventa doppiamente nocivo per l'organismo umano.
Ma come possiamo riconoscerlo?
Il pane integrale vero ha un colore scuro omogeneo (oltre che un sapore completamente diverso), mentre quello ottenuto da farina e crusca raffinate è sostanzialmente bianco (dato dalla 0 o 00), con puntini scuri dati dalla crusca.
Insomma, se proprio non avete tempo e voglia di macinare il grano e produrre la farina in casa, evitate almeno di acquistare il finto pane integrale o le farine del supermercato, optando invece per quelle macinata a pietra. Tra le più famose ricordiamo quelle del molino Quaglia e Marino, ma in realtà esistono ancora piccoli molini a pietra semisconosciuti e sempre più rari, che vale la pena andare a cercare.


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La plastica è nella catena alimentare Umana

La plastica è nella catena alimentare Umana

Ormai la microplastica fa parte a pieno titolo della catena alimentare dell'uomo. E' quanto emerge da uno studio che ha rilevato la presenza di plastica nelle feci di persone che vivono in Europa, Russia e Giappone. Lo studio è stato presentato come una prima assoluta a Vienna a un congresso di gastroenterologia. Per una settimana, cinque donne e tre uomini di età compresa tra 33 e 65 anni, residenti in Finlandia, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Russia, Giappone e Austria, hanno annotato quanto mangiavano. La dimensione dei campioni di plastica riscontrata nelle loro feci varia da 50 a 500 micrometri, più o meno lo spessore di un capello. Gli scienziati presumono che i micro-frammenti di plastica siano stati ingeriti attraverso prodotti di mare, ma anche con l'acqua dalle bottiglie di plastica e con il cibo confezionato in plastica.

La plastica è nella catena alimentare Umana

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Nove diversi materiali

«Siamo stati in grado di rilevare nove diversi materiali plastici», spiega Bettina Liebmann, ricercatrice all'Agenzia ambientale austriaca. I due tipi più comuni sono il polipropilene, utilizzato nei tappi delle bottiglie e il Pet, presente nelle bottiglie. Con polistirene (vaschette) e polietilene (sacchetti di plastica), rappresentano oltre il 95% delle particelle rilevate. «Non siamo stati in grado di stabilire un collegamento affidabile tra i comportamenti alimentari e l'esposizione a micro-plastiche», ha detto Philipp Schwabl, ricercatore all'Università di medicina di Vienna, che ha diretto lo studio. E' possibile che le microplastiche abbiano effetti negativi nel tubo digerente ma sono «necessarie ulteriori ricerche per valutare i danni potenziali per gli esseri umani».




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martedì 21 agosto 2018

Usa: 300 sacerdoti e abusi sessuali su minori

Usa, oltre 300 sacerdoti della Pennsylvania coinvolti in abusi sessuali su minori


Pubblicato il rapporto di un grand jury: più di mille le vittime.
Per 70 anni la Chiesa ha di fatto coperto i responsabili.

Un gran giurì della Pennsylvania ha ritenuto credibili le accuse di abusi sessuali nei confronti di bambini di oltre 300 preti, coperti dalla Chiesa cattolica in Pennsylvania. In un ampio rapporto, le vittime identificate sono oltre mille. Gli abusi riguardano sei diocesi dello Stato americano, e sono avvenuti nel corso degli ultimi 70 anni. "Crediamo che il numero reale delle vittime - considerando le denunce perse o quelle mai fatte per paura di farsi avanti - sia di migliaia", si legge nel rapporto di circa 1.400 pagine sugli abusi sessuali su minori segnalati in tutte (tranne due) le diocesi dello Stato.

Il rapporto finale della giuria indica che "quasi tutti i casi" sono caduti in prescrizione e non possono essere perseguiti penalmente. Tuttavia due sacerdoti sono stati incriminati per abusi ripetuti su diversi bambini in alcuni casi che risalgono al 2010. "Alcuni preti abusarono di bambini e bambine e gli uomini di Chiesa che erano i loro responsabili non fecero nulla, per decenni", hanno scritto i membri della giuria nella relazione. I giurati scrivono di "riconoscere che molte cose sono cambiate in seno alla Chiesa cattolica in questi quindici ultimi anni" ma sottolineano che le due imputazioni mostrano che "gli abusi di bambini in seno alla chiesa non sono svaniti".

Malgrado le riforme istituzionali, "gli alti responsabili della Chiesa hanno evitato le loro responsabilità", si legge ancora nel rapporto. Vescovi e cardinali "sono stati protetti". "Molti di quelli citati nel rapporti sono stati promossi", affermano i giurati secondo cui "finchè ciò non cambia, pensiamo che sarà prematuro chiudere il capitolo degli abusi all'interno della Chiesa cattolica".
Il rapporto mette nel mirino, in particolare, l'arcivescovo di Washington, Donald Wuerl, che, secondo i documenti, ebbe un ruolo cruciale nel proteggere i preti colpevoli d abusi quando operava nella diocesi di Pittsburgh "Ho agito con diligenza - si è difeso quest'ultimo - preoccupato per coloro che sono ancora in vita e per prevenire altri abusi. Il rapporto è un memento per le gravi negligenze della Chiesa, che deve cercare il perdono".

I giudici della Pennsylvania hanno lavorato sul caso per ben due anni, ascoltando testimonianze e valutando ioltre 500.000 pagine di documenti di tutte le diocesi, tranne quelle di Philadelphia e Altoona-Johnstown, già indagate. Molte vittime hanno affermato di essere state drogate o plagiate, mentre altre raccontavano gli abusi alle proprie famiglie ma in cambio ricevevano rimproveri e, tavolta, perfino botte.



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mercoledì 1 agosto 2018

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lunedì 25 giugno 2018

Caratteristiche tipiche di ogni persona Resiliente

Caratteristiche tipiche di ogni persona Resiliente


Sei una persona resiliente?
Se non ti lasci scoraggiare dalle difficoltà,
 se combatti ambiziosamente per il tuo progetto di vita a dispetto dei fallimenti e se abbracci la sconfitta come momento di crescita allora la risposta è, probabilmente, sì.

Ecco le caratteristiche nelle quali dovresti riconoscerti: sei resiliente se…

Controlli il tuo destino
Ossia sai che la vita è la tua, ed è il risultato non di quanto pianifichi o di quanto pensi ma delle decisioni prese giorno dopo giorno.

Accetti sempre la sfida
Non è necessariamente il risultato a contare ma il momento in cui spicchiamo il volo, o facciamo un grande salto con accortezza e coraggio, senza temerarietà.

Usi le avversità come bussola
Il fallimento guida la nostra vita: le occasioni mancate, ciò che ha preso la piega sbagliata e persino le nostre delusioni hanno fatto di noi ciò che siamo. Non dimentichiamolo.

Pratichi la pazienza
È un esercizio, imparare a non volere tutto e subito. Per tagliare i grandi traguardi occorre essere bene allenati e conoscere a memoria il percorso. Buttarsi va benissimo quando si tratta di mettere il primo passo, ma per andare avanti serve pianificazione e resistenza.

Lasci andare
Non ha senso restare aggrappati a quello che non c’è (più), perché guardare indietro impedisce di guardare quanto si staglia davanti ai nostri occhi.

Vivi nel momento
Chiamala mindfulness o capacità di esistere nel presente, sta di fatto che senza la necessaria serenità quotidiana difficilmente è possibile trarre la vitalità necessaria al perseguire i propri obiettivi.

Sviluppi la flessibilità
Siamo tutti, in qualche misura, abitudinari; ma senza il coraggio di vivere un’avventura o mettersi in gioco fuori dalla propria zona di comfort non ce la faremo. Poco ma garantito.

Cerchi i compagni di viaggio giusti
Perdonare è importante, perché ci consente di crescere assieme a chi amiamo e superare gli sbagli. Altrettanto importante è sapere quando è il momento di mettere dei paletti e dire di “no” a chi richiede da noi ciò che non vogliamo offrire.

Non ti fermi
Se mentre hai raggiunto la tua meta stai già pensando al prossimo passo da intraprendere,
 sai davvero cos’è la resilienza.


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giovedì 21 giugno 2018

Dare ai vostri figli uno smartphone è come dar loro della Cocaina


Dare ai vostri figli uno smartphone è come dar loro della cocaina

I bambini di oggi sono sempre più abituati all’uso della tecnologia. 
È sotto gli occhi di tutti il fatto che i più piccoli siano davvero capaci 
di utilizzare dispositivi come smartphone o tablet con grande dimestichezza
 dal momento che iniziano ad utilizzarli quando sono ancora piccolissimi.

Dare ai vostri figli uno smartphone è come dar loro della cocaina

Non è difficile, infatti, vedere in giro per la nostra città, all’interno di locali pubblici e non, bambini di tutte le età che giocano con smartphone e tablet dove scaricano applicazioni di vario tipo degli consentono di intrattenersi.

L’uso prolungato dispositivi elettronici come questi, però, è considerato nocivo non soltanto da specialisti medici del settore ma anche da molti educatori, che non ritengono questo il modo più appropriato per intrattenere i propri figli.

In particolare Mandy Saligari, una psicologa esperta di dipendenze e relazioni familiari, ha recentemente spiegato al The Indipendent quanto dare ai nostri figli uno smartphone equivalga a dar loro “1 g di cocaina”.

Dare ai vostri figli uno smartphone è come dar loro della cocaina

La dottoressa Saligari si trova a capo della clinica di riabilitazione Harley Street Charter di cui fanno parte ragazzi tra i 16 ed i 20 anni ma alcuni sono anche più giovani. In particolare secondo questa esperta, il rischio di creare dipendenza dando i nostri figli uno smartphone in età molto giovane è davvero altissimo.

Il problema è talmente importante, infatti, che pare che vicino Seattle sia stato aperto una struttura che offre assistenza proprio ai giovani che hanno sviluppato nel tempo una delle proprie dipendenza da Internet e videogame.

Si tratterebbe, quindi, di un aspetto molto importante della quotidianità a cui prestare grande attenzione perché può dar vita dipendenza pari a quelle delle droghe e dell’alcol.

Secondo l’esperta, infatti, dare lo smartphone o un tablet ai propri figli equivale a dar loro uno strumento che può creare dipendenza che nel corso del tempo può creare non pochi problemi di relazione con i coetanei e oltre che difficoltà di contatti con il mondo esterno reale.

Entrare in questa dipendenza è molto più semplice di quanto si potrebbe pensare e le conseguenze possono essere anche molto serie. Proprio per questo motivo secondo l’esperta importante fare attenzione a questo aspetto sin dai primi anni di vita dei nostri figli.

Bisogna quindi evitare un uso prolungato di questi dispositivi, incitando i propri figli a giocare con i coetanei ed iniziare delle relazioni con i bambini intorno a loro. Un argomento molto attuale sul quale gli esperti del settore si stanno interrogando a lungo in questi ultimi anni e che non può che destare l’attenzione anche di educatori e genitori.

Sempre più spesso, infatti, i genitori tendono a riempire la giornata dei propri figli utilizzando proprio dispositivi elettronici, che però specie di fronte alle affermazioni di questa esperta, appaiono come degli strumenti molto pericolosi a cui bisogna prestare grande attenzione.

L’unico modo per intrattenere i propri figli è stare un po’ di più con loro, parlare, giocare insieme e spronarli a giocare con i fratelli e con gli amici, fare attività fisica insieme e renderli partecipi nelle varie attività quotidiane. Un telefonino lo appagherà senza alcun dubbio ma un giorno potrebbero soffrire per la vostra assenza e, forse, sarà troppo tardi!

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martedì 22 maggio 2018

Legge 194


Giornaliste del Fatto hanno cercato di abortire, ecco cos’è successo

In occasione dei 40 anni dall'approvazione della legge 194 del 22 maggio 1978 pubblichiamo l'inchiesta uscita sul numero di marzo di Fq Millennium di Martina Castigliani, Silvia Bia, Claudia Campese, Tiziana Colluto, Anna Dazzan, Luisiana Gaita,
Angela Gennaro, Elisa Murgese, Giulia Zanfino.

In coda all’alba, in scantinati squallidi e freddi. Numeri di telefono che squillano a vuoto. Attese di
settimane. Medici che rifiutano certificati o indirizzano a cliniche private. La volontaria dell’associazione “pro vita” che ti parla di «omicidio».
 Mentre i consultori cattolici, in crescita, incassano fior di soldi pubblici, ma mettono in chiaro che fra le loro mura la legge sull’aborto non è in vigore.

Era il 22 maggio 1978 quando in Italia fu promulgata la legge 194 sull’interruzione volontaria di
gravidanza, dopo un’aspra battaglia che spaccò in due il Paese. Quarant’anni dopo, le donne
incontrano ancora molti ostacoli e il loro diritto a scegliere è tutt’altro che garantito. Lo hanno verificato sul campo le giornaliste di Fq Millennium che si sono presentate in ospedali, consultori e farmacie di tutta Italia chiedendo di abortire o di avere la “pillola del giorno dopo” .

Il nodo è quello dell’obiezione di coscienza di medici e infermieri. Secondo l’ultimo rapporto del ministero della Salute, con dati del 2016, i ginecologi obiettori nelle strutture in cui si praticano interruzioni di gravidanza sono oltre il 70%, in lieve aumento sul 2015 (+0,4%). Le punte più alte toccano alle regioni del sud, spesso oltre l’80%, con il record del Molise, dove gli obiettori sono al 96,9%. Nell’Italia centrale si va oltre il 70%, a eccezione della Toscana, così come in Lombardia e Veneto, e oltre l’84% nella Provincia di Bolzano. Se a questo si aggiunge che solo in sei strutture con un reparto di ginecologia e ostetricia su dieci si praticano interruzioni volontarie di gravidanza (84.926 nel 2016, in calo del 3,1% rispetto al 2015), in molte regioni il diritto garantito dalla 194 è di fatto negato. Ci sono strutture dove l’obiezione è totale e altre ridotte a catena di montaggio dell’aborto, con singoli operatori che arrivano a praticarne 400 all’anno.

Nel 2016 il Consiglio d’Europa, su ricorso della Cgil, ha richiamato l’Italia sia per le difficoltà di
applicazione della legge sia per la «discriminazione» nei confronti del personale sanitario non obiettore. L’anno dopo ha fatto lo stesso il comitato dei diritti umani dell’Onu, sottolineando come questi ostacoli portino a un aumento degli aborti clandestini. Con i suoi rischi e le sue tragedie. È la stessa legge 194, del resto, a imporre che «l’espletamento delle procedure» e «l’effettuazione degli interventi richiesti» debbano essere garantiti, ma nella realtà le cose vanno molto diversamente, come leggerete nella pagine che seguono.

Ci sono donne costrette a “emigrare” perché nella provincia di residenza i tempi di attesa sono troppo lunghi, altre non vengono informate adeguatamente sui loro diritti, altre ancora vengono invitate a
rivolgersi ai centri privati. Il tempo si accumula e in molti casi diventa impossibile evitare l’intervento utilizzando la pillola abortiva Ru-486.

E in futuro? «I non obiettori hanno in media 50-60 anni», racconta un medico che abbiamo incontrato a Palermo, mentre gli specializzandi di ginecologia hanno pochissime occasioni di fare pratica. Così «nel giro di dieci anni, la legge 194 potrebbe diventare inapplicabile».

LOMBARDIA, BOOM DEI CONSULTORI RELIGIOSI
Alle 7,30 del mattino alla clinica Mangiagalli di Milano sono già una decina, strette in fila per chiedere di abortire. Non tutte sono accettate. «Oggi ne hanno mandate a casa quattro», conferma una donna mentre aspetta il suo turno. «In base a quante sono in coda, qualche volta si è accettate e altre no – conferma Daniela Fantini, presidente del consultorio Cemp – Devi mettere in conto attese lunghe e imprevedibili». Anch’io vengo respinta, nonostante arrivi pochi minuti dopo l’apertura dell’ambulatorio. Capisco il meccanismo appena un’infermiera mi dedica qualche minuto. Mi dà una lista degli ospedali di Milano, e accanto un numero. «Mangiagalli, max 6», «Buzzi, max 16», «Sacco, max 10». Come alle altre ragazze mandate a casa, non mi resta che provare in un altro ospedale, o sperare di essere la prima il giorno successivo. «Settimana scorsa sono arrivata alle 6.30, per essere sicura di avere il posto, ed ero già la seconda», racconta una ragazza che attende vicino a me.

Mentre sono in fila nell’ospedale pubblico più noto a Milano per la maternità, una voce mi chiede se sono convinta della mia scelta. «Dopo sarà tremendo, ti sentirai come se avessi commesso un delitto,
una cosa gravissima per la tua anima». La signora – senza identificarsi – mi racconta che anche lei ha abortito, e da allora non riesce a smettere di pensare «all’omicidio» che ha commesso. Vengo così
condotta al terzo piano, dove scopro che ha sede il Centro di aiuto alla vita. Mi colpisce quanto sia
confortevole rispetto alla scala H dove aspettano le donne che vogliono interrompere la gravidanza: un locale ben riscaldato con divanetti il primo, un corridoio stretto con sedie non sufficienti e un freddino che obbliga a tenersi la giacca il secondo. «Non importa se tu vai d’accordo con il tuo uomo o no», continua la donna, «se solo i tuoi genitori ti supportassero potresti farcela», aggiunge una volontaria. La scala H, conclude la signora che mi ha approcciato, «la chiamo “il macello”, perché molte lo prendono come metodo anticoncezionale». Così, dopo qualche ora esco dalla clinica, ben istruita sulle mie colpe morali e con un elenco di ospedali dove provare ad andare il giorno dopo.

«Il problema è che in Lombardia non esiste un numero verde o una pagina web istituzionale che dia
informazioni chiare su quale ospedale scegliere, che documenti portare, a che ora presentarti»,
commenta Eleonora Cirant, ricercatrice indipendente che lavora per i Consultori privati laici di Milano. «Un tempo il punto di riferimento erano i consultori, ma oggi con la diffusione dei centri religiosi è tutto diverso». I consultori confessionali lievitano in tutta la regione, con un aumento del 16% dal 2012 al 2017. Con impatto anche sulle tasche dei cittadini, visto che Regione Lombardia rimborsa comunque le visite, ma con somme più alte per incontri psicologici, educativi o di gruppo (normalmente svolti nei centri religiosi) e più bassi per le visite ostetriche o ginecologiche (cuore dei consultori pubblici). Risultato, in posti dove la 194 è come se non esistesse, gli assegni del Pirellone arrivano con più zeri. A Milano ci sono 18 consultori legati alle Ast e 15 accreditati. Di questi ultimi, tre sono laici mentre 12 fanno capo a istituzioni religiose. In sintesi, in uno su tre contraccezione e aborto sono tabù. In uno di questi, il Consultorio familiare Kolbe, la mia volontà di interrompere la gravidanza viene del tutto ignorata. L’operatrice inizia a elencarmi i privilegi economici di cui godrei se decidessi di tenere il bambino. «Bonus famiglia, pacco alimenti, pannolini e vestiti gratis fino al primo anno di vita». Rinnovo la mia richiesta ed ecco che la diligente interlocutrice mi propone di fissare un colloquio con un assistente sociale mentre l’attesa per una visita con una ginecologa sarebbe stata di tre settimane. Alla fine, solo un consiglio: «Se vuole, le do il numero di un altro consultorio. Loro non sono religiosi, forse possono aiutarla».

Ostacoli e complicazioni aumentano per le donne straniere, che spesso incappano nei consultori
religiosi del tutto inconsapevolmente. «Gli ospedali spesso chiudono loro la porta in faccia, così si
procurano l’aborto con farmaci che possono ridurle in fin di vita», racconta Tiziana Bianchini della
Cooperativa lotta contro l’emarginazione. Molte nigeriane vittime di tratta e costrette a prostituirsi in
strada «raccontano di essere state rimandate a casa». Ma accade anche a richiedenti asilo
regolarmente soggiornanti in Italia. A loro non resta che provare i consultori, ma nello slalom tra religiosi e obiettori «i giorni passano e si può arrivare al superamento del termine di tre mesi». Un meccanismo che incrementa gli aborti clandestini. «Non dobbiamo pensare che chi non riesce a interrompere una gravidanza negli ospedali pubblici terrà il bambino. Semplicemente, abortirà in modo illegale, pagando molti soldi o mettendo a rischio la sua vita», chiarisce Bianchini. Per esempio con il Cytotec, un farmaco per prevenire le ulcere gastriche. Compressa dopo compressa, «essendo un anticoagulante provoca emorragie violentissime, tanto che molte donne che lo hanno assunto a scopo abortivo sono finite in ospedale, diverse in pericolo di vita. L’aborto è un diritto – chiude Bianchini – nessuna donna dovrebbe rischiare la vita per farlo».

Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, rispondendo a un’interrogazione del 2017, ha affermato che, secondo le stime, ogni anno dalle 12 alle 15 mila donne italiane e dalle 3 alle 5 mila straniere abortiscono clandestinamente, in cliniche o studi medici fuorilegge.

ROMA, APPUNTAMENTO TRA VENTI GIORNI
A Roma sono le 6 del mattino. All’ingresso del San Camillo non c’è l’indicazione per le interruzioni di gravidanza. Il vialetto che porta alla palazzina di ginecologia è buio e deserto. Sui muri, le scritte dei futuri papà: «Gianrobertino ti stiamo aspettando». A metà della salita esterna, una freccia verso il basso indica un sottoscala nascosto: due rampe, un cortiletto transennato, il rumore degli impianti dell’ospedale. È qui che fanno gli aborti. E qui le donne si mettono in fila dalle 4 del mattino. Ma non c’è nessuno: nella notte ha diluviato e a Roma, quando piove, tutto si ferma. Risalgo verso il bar per un caffè. Quando torno, ci sono quattro donne davanti alla porta chiusa.

Una di loro chatta. Spio: con la ginecologa e con qualcuno chiamato «Amore». Penso che «Amore»
poteva pure stare qui al freddo e tra le pozzanghere. «Aprono la cartella clinica. Poi ti mandano
all’ecografia e dalla psicologa. È rapidissima: solo per essere certa che tu sia consapevole di eventuali dolori dopo», spiega una ragazza. Se c’è posto risolvi in giornata, «altrimenti ti danno appuntamento il prima possibile». Il reparto apre alle 8. Prendono le prime dieci, quindici persone fino alle 8.30. La fila, ora, arriva fino al mondo di sopra: una ventina di donne, uomini accompagnanti tre. Un’infermiera rassegnata apre la porta. Ogni donna riceve un cartellino con numero. «6 arancione!». Certificato, documento. «Figli? Aborti?». «È propensa all’Ru (la pillola abortiva, ndr)?», chiede un’infermiera con dolcezza. «Mai sofferto d’asma? Problemi di coagulazione, epilessia? Cardiocircolatori?». Segna Ru a matita sulla cartella.
«Allora intanto lo scrivo qui che la preferirebbe».

Il San Camillo è l’unico ospedale della Capitale dove ci si presenta direttamente. Negli altri, la trafila
prevede prima il passaggio dal consultorio, anche se già fornite di certificato medico. Molti numeri, di ospedali e consultori, squillano a vuoto. Per altri, scatta il fax. «Venga qui così fa la visita e parla con l’assistente sociale», mi dice finalmente un consultorio di Roma Nord. «Ho già il certificato del mio ginecologo», obietto. «Non importa: lei viene e parla con l’assistente sociale. Poi sarà lui a prenderle un appuntamento». «E quanto ci vuole poi per l’ospedale?». «È in zona? Il primo appuntamento possibile al San Filippo Neri sarà tra una ventina di giorni». «Ma io sono alla sesta settimana, scadono i tempi per il farmacologico». «Vedranno loro se rientra per l’Ru oppure se farà il chirurgico. Altrimenti vada al San Camillo». Analoghe risposte mi vengono date da consultori di altre zone. Nel 2017 al San Camillo sono state effettuate 843 interruzioni di gravidanza farmacologiche, 1323 chirurgiche e 179 aborti terapeutici. Qui arrivano donne da Molise, Sicilia, Basilicata, Campania, Puglia, Calabria, Abruzzo. E dal resto del Lazio: se nella Capitale abortire resta un percorso ad ostacoli, nel resto delle province «la situazione è drammatica», racconta Giovanna Scassellati, che dirige il reparto da vent’anni. A Rieti e Viterbo «fanno 5 interruzioni volontarie a settimana e l’Ru-486 è praticamente inesistente. A Velletri il vescovo dice che lì gli aborti non si fanno». Dal 2012 al 2017 hanno chiuso i servizi di Monterotondo,
Palestrina, Genzano. Per la Regione il servizio è «adeguato», ma non la pensa così Non una di meno,
che proprio il 22 maggio scenderà in piazza a protestare.

Anche i farmacisti obiettano, peccato che per loro la 194 non preveda questa opzione. L’articolo 9 la
limita al «personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie». «Qui EllaOne non la trova», dicono alla farmacia di Fiumicino, mentre una Madonna con bambino ci guarda. Il titolare, Pietro Uroda, presidente Farmacisti cattolici, «non vuole». Ma è legale? «Sono d’accordo con lei», mi viene risposto con un’alzata di spalle.

L’obiezione negli ospedali non è solo di coscienza, ma anche economica, spiega Andrea Filippi,
segretario nazionale della Fp Cgil Medici. Se in un reparto c’è un solo non obiettore, «passerà il suo
tempo a fare aborti e non potrà occuparsi di altro o fare carriera». «E verrà isolato», aggiunge Lisa
Canitano, ginecologa e presidente dell’associazione Vita di Donna. Nella maggior parte degli ospedali di Roma, il primariato di ginecologia è affidato a medici provenienti da strutture del Vaticano o dell’Opus Dei. Per l’aborto oltre i 90 giorni «la situazione è drammatica, a causa dei tanti servizi in mano a strutture religiose come il Gemelli e il Bambino Gesù», spiega Canitano. Strutture dove l’interruzione di gravidanza non è naturalmente contemplata, neppure entro i tre mesi. Quando telefono al Gemelli, ecco la risposta dell’infermiera. «Qui sono tutti obiettori, è inutile che venga. Non ne facciamo proprio». Il primario Pino Noia, presidente dei medici cattolici, definisce gli aborti terapeutici «eugenetici». Richiamarsi alla legge, per lui, è «asettico»: «Se vediamo solo il dato giuridico, 150 anni fa un negro in America non poteva entrare in chiesa», esemplifica a Fq Millennium.Nel frattempo, il laico Policlinico Umberto I ha visto ridursi pesantemente l’attività dello storico «repartino» Ivg, che negli anni Settanta fu occupato per alcuni mesi da un collettivo femminista. Chiuso per un periodo quando l’ultimo medico non obiettore è andato in pensione, ha poi riaperto, ma con attività ridotta: 235 le interruzioni nel 2017, 42 le Ru. «È un policlinico universitario, l’unico a Roma con repartino Ivg: gli altri due non ce l’hanno neppure», dice Serena Fredda di Non una di meno. «Questo è un problema per le prossime generazioni di medici».

EMILIA, “LASCIATA SOLA CON DOLORI LANCINANTI”
Con il 48% di obiettori, l’Emilia Romagna è un’isola virtuosa, tanto che “ospita” donne provenienti dal sud della Lombardia. Ma basta addentrarsi nel reparto ginecologia di un importante ospedale per
imbattersi nella storia di Francesca: lasciata quasi cinque ore in una sala d’attesa, circondata da donne con il pancione, mentre la pillola abortiva faceva il effetto e veniva scossa da dolori lancinanti, racconta a Fq Millennium. Qualche anno fa si è sottoposta all’aborto farmacologico per accelerare i tempi, dopo che in un’altra struttura le avevano fissato l’intervento chirurgico a distanza di oltre venti giorni. «È già una decisione difficile, aspettare è psicologicamente massacrante, perché ogni giorno che passa ti rendi conto di quello che sta succedendo». Così arriva il momento. «Avevo perdite abbondanti, un grande dolore – continua Francesca – e nessuno tra il personale presente in tutto quel tempo mi ha chiesto se avessi bisogno di qualcosa, di un bicchiere d’acqua, un assorbente, un antidolorifico. Sono stata trattata peggio di un animale».

Non sono poche le donne che raccontano di essersi sentite «giudicate, trattate con scarsa umanità e
soprattutto non informate a sufficienza, soprattutto sulla tempistica» spiega Benedetta Ziliani di Non una di meno Piacenza. «C’è chi, aspettando i sette giorni standard dalla visita, ha scoperto che non poteva più prendere la pillola, ma doveva per forza sottoporsi all’intervento». (sb)

CALABRIA, LA CLINICA SOSPESA
È il 7 febbraio quando varco la soglia dell’Annunziata, che troneggia nella parte alta di Cosenza e
imbocco uno dei tanti corridoi che si snodano nel suo ventre. Al reparto di Ginecologia mi indicano i
Servizi sociali. Finalmente arrivo in un corridoio spoglio, dove faccio la fila con una ragazza asiatica. «L’intervento è a Rogliano, a dieci chilometri da qui, e dopo non si può guidare. Io non so come fare a tornare a Cosenza», si lamenta. Arriva il mio turno. Ad accogliermi una signora in camice bianco. Mi avverte che devo decidere in fretta. «Stiamo già prenotando per marzo. Se ti sbrighi e decidi ora, ti prenotiamo in quei giorni. Dopo non lo so». Insisto per capire la ragione di quei tempi d’attesa, alla fine l’assistente sociale cede: «I medici ci sono, ma sono tutti obiettori!».

Fino a poco tempo fa ci si poteva rivolgere alla casa di cura Sacro Cuore, del gruppo imprenditoriale
iGreco, controllato dalla famiglia Greco. L’assistente sociale spiega che la struttura privata è
convenzionata con accredito regionale, «ma da qualche giorno non operano più». Decido di andarci.
Nella lussuosa sala d’attesa la scritta «iGreco» campeggia sulla parete bianca, e dietro i vetri tirati a
lucido alcune signore rispondono al telefono. «Purtroppo siamo fermi», mi dicono. «Per cose di Regione e Asp. C’è la possibilità che si riprenda, così come c’è la possibilità che non si riprenda». Lo stop è arrivato in seguito all’esposto presentato in Procura della parlamentare M5S Dalila Nesci, secondo la quale la clinica non è mai stata accreditata dalla Regione Calabria per praticare interruzioni di gravidanza. L’amministratore unico del gruppo Saverio Greco sventola «un’autorizzazione ministeriale», che però secondo l’esposto non sarebbe sufficiente a legittimare il servizio. «Abbiamo dovuto respingere donne che sono arrivate troppo tardi a causa della difficoltà di trovare strutture», aggiunge.

Morale: in caso di necessità, in meno di un mese a Cosenza e dintorni non si può abortire.
Provo più a Sud, all’ospedale di Lamezia Terme. Dove la dottoressa Lia Ermio mi catapulta in uno
scenario inatteso. Perché ancora oggi, come quarant’anni fa, il personale medico deve sanare
situazioni estreme, come i fai da te che mettono in serio pericolo di vita. Se non si ha la fortuna di
trovare una struttura disponibile, c’è Internet dove si acquistano facilmente pillole che dovrebbero
essere assunte con un medico a fianco. Delle 250 interruzioni di gravidanza l’anno, a Lamezia il 10%
riguarda interventi su aborti fatti in casa.

Secondo il ministero della Salute, su 15 strutture ospedaliere, in Calabria, solo sette praticano
l’interruzione di gravidanza, e all’ospedale di Lamezia su 12 medici solo due non sono obiettori. «È un lavoro con un rischio chirurgico e anestesiologico», chiosa la Ermio.
«Se si può evitare, perché farlo?».

MOLISE, SOLO UN MEDICO NON FA OBIEZIONE
L’obiezione crea paradossi, come in Molise, dove solo un ginecologo pratica l’interruzione di gravidanza e gli altri 31 si astengono. Si chiama Michele Mariano, opera al Cardarelli di Campobasso e dirige il Centro regionale per la procreazione responsabile. Del suo caso hanno parlato anche giornali e tv, un anno fa, ma da allora nulla è cambiato. «Continuo a essere l’unico – racconta a Fq Millennium – e non solo per le donne del Molise, ma anche per quelle che arrivano da regioni vicine, come la Campania, l’Abruzzo, la Puglia». Mariano cerca di non mandare via nessuno perché crede nella 194. «Forse se non è cambiato nulla – ironizza – è anche un po’ colpa mia che continuo a occuparmi di circa 400 interruzioni all’anno da solo». In che modo? «Facendo vacanze brevi, di tre o quattro giorni, al massimo una settimana. E cercando di non far superare alle pazienti i termini di legge». Fosse per lui «l’obiezione di coscienza andrebbe abolita per chi si specializza in ginecologia. Se hai una certa convinzione devi pensarci prima».

In Campania, i dati del ministero sono fermi al 2013: l’obiezione tocca l’81% dei ginecologi, il 65% degli anestesisti, quasi il 73% del personale non medico. E solo qui, oltre che nella provincia autonomia di Bolzano, praticano l’interruzione volontaria di gravidanza meno del 30% delle strutture. Secondo la Regione, al Cardarelli di Napoli gli obiettori sono 10 su 12 ginecologi, al Loreto Mare sono 12 su 15. Al Rummo di Benevento, circa un anno fa l’unico medico non obiettore è andato in pensione e il servizio è stato sospeso per un periodo. L’isola felice è il Moscati di Avellino, dove ci sono sei non obiettori su 14.

Qui è possibile sia fare l’interruzione entro i primi 90 giorni sia oltre, ossia l’aborto terapeutico. «Anche in Campania si incontrano difficoltà – spiega la ginecologa Carla Ciccone – soprattutto per l’interruzione dopo i 90 giorni, per malformazioni del feto». Quest’ultimo è un intervento più complesso, «con la somministrazione della Ru486 e il ricovero per l’intervento di raschiamento». Ad Avellino arrivano anche da altre regioni e per garantire alle pazienti questo diritto Carla Ciccone ha deciso di rimanere nonostante abbia raggiunto ormai i quarant’anni di servizio.

Mentre qualcun altro fa il doppio gioco: il consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli
ricorda casi di «medici radiati dall’Ordine perché obiettori nel pubblico, ma che poi praticavano aborti anche clandestini in particolare a minorenni, a straniere e a prostitute». Solo raramente queste storie vengono alla luce. A Castel Volturno (Caserta), nell’ottobre 2017 è stato arrestato Friday Ewunoragbon, 51enne nigeriano, che per l’interruzione chiedeva 300-350 euro, e fino a 2.500 per quelle inoltrate, anche fino al quinto mese. Tra le clienti di “Doctor Friday”, prostitute nigeriane vittime di tratta provenienti da tutta Italia.

SICILIA, TUTTE A PETRALIA SOTTANA
L’obiezione crea involontarie Mecche dell’aborto. Come Petralia Sottana, nel palermitano, tremila
abitanti e strade spesso impraticabili a mille metri sul livello del mare. Non esattamente un luogo di
passaggio. Eppure, ogni anno, il suo piccolo ospedale è meta di almeno 300 donne che intendono
interrompere una gravidanza, spesso provenienti dalla parte opposta dell’isola o da Palermo, dove la
quota di obiezione è in linea con l’85% regionale (90% a Catania).

A Petralia, i ginecologi sono cinque, compreso il primario, fino all’anno scorso Roberto Ardizzone, unico non obiettore del reparto, oggi in pensione. Al suo posto, l’azienda ha assunto un nuovo collega con un’apposita postilla di non obiezione. «Io ho sempre fatto interruzioni di gravidanza, dal 1979 – racconta – La mia media era di dieci alla settimana». Quasi tutte chirurgiche, considerato che nel paesino sulle Madonie le donne arrivano spesso al limite del tempo, dopo aver girato vari ospedali.

Una situazione oggi tamponata dall’introduzione all’ospedale Cervello di Palermo dell’interruzione
farmacologica, «che permette di snellire le liste di attesa», spiega Francesco Gentile, tra i due non
obiettori sui 23 ginecologi del reparto. La questione, conclude amaro, potrebbe essere presto superata: «I non obiettori hanno in media 50-60 anni e agli specializzandi queste tecniche non vengono proprio insegnate. Nel giro di dieci anni, la legge 194 potrebbe diventare inapplicabile».

L’obiezione, fra l’altro, non sempre ha a che vedere con motivi etici. «Il vero problema sono i soldi. Per molti non è conveniente assumersi il rischio di un’operazione in più se si viene pagati comunque allo stesso modo – riassume Ardizzone – Gli obiettori dovrebbero prestare un servizio alternativo per la collettività, nei consultori o a fare prevenzione nelle scuole».

SALENTO: BANDO RISERVATO AI NON OBIETTORI
La ginecologa non c’è. Ma le infermiere, tutte signore di mezza età, sono premurose:
 «Appuntamento a domani, vediamo di fare in fretta.
Sa com’è, più tempo passa e più diventa difficile per tutti, anche
psicologicamente».
Nel consultorio centrale di Lecce mi presento come una donna alla sesta settimana.

È troppo tardi per l’aborto farmacologico: bisogna sottoporsi a visita ginecologica, poi prenotare in
reparto, poi attendere altri sette giorni, «perché ci potrebbe essere un ripensamento». «Vai a Brindisi», mi suggerisce una ragazza in attesa, 24 anni e una pancia che cresce: «Lì fanno prima, in clinica privata. Io ho risolto così lo scorso anno». Chiamo a Brindisi. E ha ragione lei: in dieci giorni
l’operazione è già fissata, una settimana in meno rispetto a Lecce.

In provincia, avere informazioni è più difficile: il telefono squilla a vuoto di martedì pomeriggio, giornata di apertura, nei consultori di Poggiardo, Maglie e Copertino. A Scorrano, chiamo direttamente in Ginecologia, in ospedale. Risponde un’ostetrica: «Sono obiettrice e qui quella pratica non la facciamo, ma provi a telefonare dopo le 21, perché è di turno un medico che è stato “in mezzo a queste cose” e sa aiutarla».

Nel Salento, la seconda fase è più complicata della prima: l’interruzione della gravidanza è possibile
solo in due ospedali pubblici su sei, sebbene per legge tutti, in day service, dovrebbero garantire il
servizio. Lo scorso anno, i medici non obiettori erano appena tre e la Asl ha dovuto indire un bando riservato solo a loro, prevedendo l’automatico licenziamento di chi dovesse cambiare idea. Oggi sono sei, il 10%. Quattro operano a Lecce, dove il ritmo è pari a circa mille aborti l’anno e i tempi di attesa sono di 15 giorni; gli altri a Gallipoli e Scorrano, dove però mancano ostetriche e anestesisti non obiettori. Così i due sono costretti ad alternarsi il sabato, in day service,
nell’altro unico ospedale disponibile, Casarano.

NEL NORDEST 23 NO PRIMA DI ABORTIRE
Ha dovuto rivolgersi a ben 23 strutture tra Veneto e Friuli Venezia Giulia prima di poter abortire – grazie all’intervento della Cgil – proprio allo scadere dei novanta giorni, avendo scoperto la gravidanza al secondo mese ed essendosi imbattuta in lunghe liste d’attesa. Il caso è del 2016, ma la causa non è cambiata: nell’efficiente Veneto, ci sono picchi di obiezione al 100%,
come ad Adria e nell’Est veronese.

«L’obiezione aveva senso quando è stata fatta la legge – denuncia Mario Puiatti, presidente nazionale
dell’Aied (Associazione italiana per l’educazione demografica) e responsabile delle strutture di Udine e Pordenone – Oggi, invece, chi non è d’accordo semplicemente non deve fare la specializzazione in
ginecologia». Lui è un pioniere, che prima dell’approvazione della 194 praticava già l’intervento
«inviando una lettera di avviso alla Procura della repubblica. Non si poteva fare, eppure nessuno è mai venuto a controllare». Nel Nordest, continua, «il punto di debolezza è il tempo: gli ospedali, per
esempio, vogliono le ecografie anche se non sono obbligatorie. La condizione psicologica delle donne viene completamente sottovalutata».

I diritti, conclude, «non piovono dal cielo, bisogna conquistarseli, se serve anche con la disobbedienza civile e poi lottare per mantenerli».






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